Il pugilatore, un’intervista ad Amleto De Silva

  Ho avuto il piacere di porre qualche domanda ad Amleto De Silva che con il suo Il pugilatore. Viaggio intorno a Sonny Liston, appena edito da Les Flâneurs Edizioni, ci racconta la vita di Charles L. Liston, detto Sonny, campione mondiale dei pesi massimi dal 1962 al 1964, uomo dalla vita travagliata, povero, analfabeta, discriminato per motivi razziali, morto a trentotto anni forse per un infarto nel 1971. È una biografia del tutto non convenzionale che, attraverso un “giro lungo”, come lo chiama l’autore, ci regala un singolare affresco fatto di aneddoti, personaggi, storie che ci danno una precisa idea della cultura e della società americana di quegli anni.

Innanzitutto, Amleto, come e quando è nato Il pugilatore? È un libro che ha avuto una gestazione lunga o è il frutto di un felice lampo creativo?

In realtà era parecchio che ci pensavo. Liston è vittima di damnatio memoriae, e mi pareva giusto raccontare la sua storia, e che fossi proprio io a farlo. Certo, avrei fatto meglio a scrivere di uno sportivo mainstream, ma vuoi mettere?

Colpisce la tua decisione di raccontarci tutto attraverso quello che tu definisci “un giro lungo“. Ne esce fuori una biografia insolita, del tutto originale rispetto alle biografie che siamo soliti leggere…

Beh, perché di Liston ha già scritto meglio di me Nick Tosches, e io ho troppo rispetto per mettermi al suo livello. E poi il giro lungo permette a me di raccontare più cose e al lettore di non annoiarsi. Certo, divagare su carta è difficile, perché poi devi riannodare i fili. È faticoso, fare il giro lungo: devi sapere sempre dove vuoi andare a parare, devi studiare, verificare le fonti, tradurre libri e articoli. Ma alla fine è una cosa divertente, e quello è il motivo, l’unico, per il quale mi prendo la briga di scrivere.

Appare chiaro che che quella del “giro lungo” è una soluzione che ti consente di dare vita a un singolare affresco di quegli anni, di far emergere aspetti, personaggi, situazioni, ma anche la mentalità e la cultura americana, e non solo americana, perché in realtà ci sono molti rimandi all’Italia di quei decenni, influenzata, per non dire sommersa, dalle proposte e dalle mode che provenivano d’oltreoceano…

Quello che tendiamo a ignorare è che spesso le prime vittime della propaganda americana sono gli americani. Noi eravamo molto meglio di loro, soprattutto al cinema. È una vita che ci invidiano e ci scopiazzano la commedia dei grandi maestri, da Risi a Monicelli. Adesso siamo noi a prenderci la loro monnezza: prendi il metoo. Siamo diventati un paese di pappagalli. Invece di copiare Clint Eastwood, che a più di novant’anni si permette cose incredibili, ci siamo rimbecilliti da soli appresso a ogni singola scemità che vediamo in giro. Le andiamo proprio raccattando. Anche in letteratura: sapevamo essere profondi e briosi, e invece siamo diventati una mappata di femminucce lamentose. Mio Dio, quanto, quanto cazzo siamo noiosi.

Il “giro lungo” è anche ciò che ci permette di calare la vita di Liston nel giusto contesto storico-sociale e di capire al meglio il temperamento, il ruolo, certi atteggiamenti dell’uomo…

Certo. Ma teniamo presente che l’uomo Liston praticamente non esiste. Quando uno passa tutti i guai del mondo, nessuno escluso, smette di essere una persona. Povero, maltrattato, brutto, analfabeta, negro in un paese profondamente razzista. È chiaro che poteva venir fuori solo e unicamente così. Sai, noi diciamo spesso “è colpa della società”, e lo diciamo quasi sempre a capocchia: ecco, nel suo caso è esattamente così. Liston è quello che gli è stato fatto.

Riesci a parlare senza problemi di cinema, televisione, letteratura, musica, del giornalismo di quegli anni, disseminando il testo di numerosi aneddoti, storie e ritratti di personaggi. Questa modalità compositiva ti ha richiesto una lunga opera di documentazione oppure ti sei affidato semplicemente ai ricordi?

No, non puoi affidarti ai ricordi quando scrivi una cosa così. Ho lavorato molto a questo libro, e per lavorato intendo davvero parecchie ore al giorno per molto, molto tempo. Però ne è valsa la pena. Quando non devi farlo a scuola, studiare è la cosa più bella del mondo

È una narrazione, però, in cui le vicende della vita Liston non sono mai del tutto disgiunte da quelle dello scrittore De Silva…

In realtà no. È che sono molto bravo a nascondermi. Non mi piaccio per niente e sono convinto, in fondo, di non essere granché come persona, quindi ogni tanto butto lì un fattariello assolutamente marginale della mia vita e che assolutamente non mi definisce, così alla fine sembra che mi mostri, anche se è il mio ennesimo modo per nascondermi.

È costante, nel libro, l’antitesi tra i due campioni: da una parte Liston, personaggio dal temperamento sanguigno e irascibile, cresciuto in una piantagione, che non sa leggere né scrivere, che si fa arrestare per ubriachezza molesta, per resistenza a pubblico ufficiale, che entra ed esce di galera, ma anche così autentico, e dall’altra Clay/Ali, la stella della boxe mondiale accettato dall’America bianca e l’eroe delle battaglie civili, nato per piacere (“Muhammad Ali è nato per piacere, Sonny Liston no. Liston è nato morto, come dicono tutti quelli che lo conoscono.”). Si capisce molto bene a chi vada la tua preferenza…

Se tifi Alì, fai bene. Se tifi Alì invece di Liston, secondo me fai male. Alì è il prodotto (lasciando perdere il valore sportivo e anche umano) di una società ruffiana e bugiarda. Sonny Liston è un disgraziato, e io in tutti questi anni una cosa l’ho capita: se fai il tifo per i poveracci, nel novanta per cento dei casi sei una brava persona. Tutto qui.

Nelle tue pagine, oltre alla grande ironia, si lascia apprezzare molto il tono affabile, che non disdegna di dare del tu al lettore e di chiamarlo in causa, abbattendo ogni distanza autoriale di stampo classico…

Ma per carità, lo stampo autoriale… Citando Stephen King, non ho mai avuto troppa pazienza con queste stronzate da accademia. Io sono uno scrittore, e racconto storie, e voglio farlo senza mettermi sul cerasiello. Voglio che la gente dica “ho finito il tuo libro in poco tempo”. Che si diverta, che pianga, che si commuova. Anche se, e questo mi fa piacere ribadirlo ogni volta, scrivere così è molto più faticoso, perché devi liberarti del tuo ego e pensare a chi ti leggerà, stando attento a non scrivere banalità per andare incontro al lettore. Io cose facili non ne scrivo. Ogni parola è lì per un motivo. Il mio rispetto va ai miei lettori, non a quei quattro fessi che vogliono la cosarella. Io i miei lettori li conosco, e loro conoscono me.

Il pugilatore è un libro che, al di là degli aneddoti divertenti, permette però di riflettere anche su temi quali i pregiudizi, il razzismo, la discriminazione degli emarginati….

Infatti comincio a pensare che non sia stata una grande idea parlare di questi temi. Vedi, oggi in Italia vogliamo la formula magica, vogliamo dimenticarci di queste cose. Non vogliamo leggere cose che ci ricordino che i razzisti, i fascisti, i cattivi siamo noi. Avrei dovuto scrivere una cosa tipo il bel ragazzo nero che nei centri d’accoglienza si inventa una startup, o magari diventa uno sbirro dal cuore d’oro, cose così. Ma non è colpa mia se so scrivere.

Da questa tua biografia la figura di Liston non esce in alcun modo assolta né giustificata per i suoi eccessi e per le sue debolezze… Tu che idea ti sei fatto delle due sconfitte con Clay/Ali, alquanto discusse, e della sua morte tragica, avvenuta a soli 38 anni?

È l’America che deve chiedere di essere assolta, non Sonny Liston. Erano i Kennedy, quelli invischiati con la mafia, molto più di Liston. Era JFK che andava in chiesa e poi tradiva la moglie con la qualunque. Sonny era un negro che cercava di fare quello che gli permettevano di fare. E tra le cose che non gli erano concesse c’era conservare il titolo contro Alì. Sonny, il titolo, se lo è venduto. Che poi, essendo un ottimo pugile e molto più giovane, Alì il titolo se lo sarebbe preso comunque, non c’è alcun dubbio. Ma quei due incontri lì, Liston se li è venduti. Anche perché Alì voleva fortemente essere il più grande, il Campione, mentre Sonny no. Sonny era uno che voleva solo trovare un po’ di serenità, voleva solo che il mondo lo lasciasse in pace.

Come me. Ecco perché tifo e tiferò sempre per lui.

Intervista apparsa su Lankenauta.it

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