Voce del verbo mare

  A qualche anno da Le ore del terrore (L’Arcolaio) e dopo i racconti di Vi dichiaro marito e morte (Ensemble), Simone Consorti torna in libreria con Voce del verbo mare (Arcipelago Itaca), una preziosa silloge poetica che con una grande felicità espressiva ci cala nel tempo etereo e indecifrabile dell’attesa, un’attesa dalla forte impronta messianica, dietro la quale non si fatica a cogliere un’accorata preghiera levata al cielo affinché un dio finalmente si riveli e il mondo tradisca il proprio senso.

Si tratta di un’attesa a volte cercata, che può indurre all’isolamento, a fare il vuoto attorno a sé, un’attesa che potrebbe risultare anche snervante poiché è in grado di sottrarre energie e volontà e che, lontana dall’avere soluzione, può portare l’io a voltarsi indietro, a cercare con malinconia le tracce di un passato che può essere l’unico luogo, anche metaforico, in cui riscontrare la propria vita.

Molto significativo è il titolo della prima sezione, Ti ho dato appuntamento senza dirtelo, che esemplifica nel breve giro di un verso una poesia in cui affiora a più riprese l’idea di non riuscire a dirsi, a esternare un sentimento che prenda posto e si affermi in un mondo sempre più difficile da decifrare e in cui il poeta non si riconosce, idea a cui fa da contrappeso la rivelazione di un io che si dibatte tra cose dette e non dette, episodi e amori vissuti o non vissuti ma sempre segnanti nell’evoluzione del proprio percorso interiore.

Si delinea così una particolare condizione esistenziale, evocata in modo assai potente perché resa in una veste musicale e da un ritmo cadenzato, esemplata ottimamente dall’immagine di un direttore d’orchestra senza bacchetta (Il direttore d’orchestra ha perso la bacchetta, poesia dedicata a Fellini):

Il direttore d’orchestra
ha perso la bacchetta
e senza di quella
nessuno gli dà retta

a cui si accosta anche la figura di un Amleto dimezzato che, sceso dal trono e privo ormai del ruolo che gli si addice, tanto fa pensare allo status dell’uomo contemporaneo, disdicevolmente perso nella banalità disarmante delle scelte quotidiane (non meno pregevole è l’immagine di lei, una Ofelia che affoga in un bicchier d’acqua).

In questa dimensione dimessa dell’ordinario che sembra inevitabilmente costretto ad accettare, al poeta non resta che accompagnare se stesso durante il tragitto, contemplandosi con occhi lontani, a volte con ironia – “In ogni caso, per me l’autoironia è farsi un’auto-caricatura auto-ritratto da molto lontano, qualcosa di piccolo, minuscolissimo, quasi infimo, che evidenzia il difetto pur facendolo restare pressoché invisibile.” ci dice il poeta in C’era una volta Simone Consorti, nota aggiunta in chiusura – altre con un atteggiamento nel quale si potrebbe riscontrare del compiacimento (All’alba mi accompagno sulla spiaggia), del piacere procurato dalla volontà di perdersi o di autoescludersi da questo mondo incomprensibile (così evidente in Ho lasciato accanto al mio un posto vuoto), oppure il tentativo, non sempre destinato ad andare a buon fine, di ritrovarsi, di ricomporre se stesso (La mia metà ha passato la frontiera), di riconoscere la propria identità in uno specchio (Lo specchio non è più quello di prima), salvo poi scoprire che il proprio posto è stato preso da un morto (Incubo numero 42), o che lo svanire, il morire in via definitiva, potrebbe apparire in conclusione il ripetersi di un evento già esperito migliaia di volte (Verso mezzanotte).

Questo senso di precarietà estrema, di transitorietà oltremodo consapevole nella quale Consorti indugia con amara dolcezza ma anche con la speranza ultima di uscirne, è spesso associato ai colori e alle sensazioni dell’autunno, all’immagine della foglia sospesa o caduta, più volte presente nella raccolta:

La tragedia dell’autunno è nell’attesa
in quelle foglie precarie
dall’aria sospesa
Conosco un poeta che aspetta
da trent’anni in qua
il suo grande amore scomparso
un’ora fa

a una stagione che in ogni caso non fa promesse (Settembre non fa promesse) e che a volte sembra stia per lasciare il posto ai fiocchi di neve dell’inverno.

Il mare, come indica il titolo della silloge, è il confidente ultimo del poeta: luogo prediletto e onnipresente nelle rime, placido ascoltatore, è l’amico discreto e mai molesto a cui affidare pensieri e riflessioni (Tre riflessioni nel mare), non senza una certa palpabile perplessità imputabile al suo perenne silenzio:

Certi mari certi laghi e certi specchi
si fanno proprio belli
prima di riflettermi
ma non ho mai capito
se è compassione o inganno
perché son proprio quelli
gli specchi che mi sopravviveranno

Diversa, ma correlata alla prima, è la natura della seconda sezione, Mentre dio faceva il suo dovere, in cui un dio assente o nascosto non interviene a correggere le trame sbagliate tessute dagli uomini, i disegni strampalati e i percorsi insondabili, dispiegandone il senso (toccante è Pioveva il giorno del tuo matrimonio), né il destino di alcuno, tanto meno quello di un ragazzo senza braccia:

A pochi passi dalla cattedrale
aveva eletto uno spigolo in basso
da un muro diverso da tutti gli altri muri
che un giorno avrebbe consumato
se non si fosse consumato prima lui

cosa che indurrebbe a pensare che il nostro nume tutelare abbia abdicato definitivamente al proprio ruolo (da qui l’ironia del titolo della sezione).

Emerge così tra le rime, da episodi di vita dal forte impatto visivo, il canto doloroso di un’umanità desolata, ferita, perseguitata o addirittura annientata (Il nonno di mia nonna), dispersa in un mondo che non sembra conoscere affatto cosa sia l’affetto o la solidarietà:

Sono rimasta al mio posto
Ero troppo stanca per andarmene
fino al sedile giù in fondo
e sei mesi di pancione
pesavano troppo
In più mi vergognavo
a mostrare alla gente del quartiere
quei segni sul volto
Così ho fatto finta di non capire
che ce l’avevano con me
E quando mi hanno gettata di sotto
sull’autobus nessuno se n’è accorto

e in cui il crimine e la malvagità (18/11/1978) hanno la meglio, assieme all’idiozia molesta dei molti. Se c’è chi, allora, come il Simone di Simone sta vendendo a sua sorella le sue tre case, si prepara a partire in fuga da questo mondo che non è il suo, c’è anche chi non può decidere ancora di se stessa o di essere a piacimento uomo o donna  (Francesco oggi è donna e si è truccato).

Assurge allora prepotentemente alla ribalta, anche in questa sezione, l’immagine del mare, l’ergastolano / presente soltanto a se stesso, il mare che rivolge al cielo e a noi tutti la sua incessante preghiera, il suo lamento, affinché qualcuno possa giungere a redimere gli uomini:

Il lamento incessante del mare
la più sorda la più disattesa
di tutte le preghiere

Recensione apparsa su Lankenauta.it

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