Sono davvero tanti i pregi di questo breve romanzo di Lodovica San Guedoro, Agonia. Lo strano incidente che capitò a Giulia Berri-Orff in quel tempo lontano, scritto tra il 2003 e il 2004 e proposto di recente dall’editore monacense Felix Krull, un testo che per temi e toni suggeriti può essere inteso come il prequel dei due lavori sentimentali dell’autrice, “Pastor che a notte ombrosa nel bosco di perdé…” e “Amor che torni…“, che sono di fatto un’opera sola.
Innanzitutto, una materia a veder bene non semplice da narrare perché priva di aspetti diegetici e composta essenzialmente di ricordi, di visioni, di momenti esemplari di un particolare stato d’animo, e che culmina con l’evocazione di un mancato incontro tra due esseri che si son cercati tempo addietro ma la cui unione non è giunta a compimento, viene qui riportata con una maestria unica ed ineguagliabile, mettendo in campo una vera voce autoriale, che incanta e irretisce il lettore aggiogandolo di volta in volta con atmosfere sospese e rarefatte, fuggevoli ed enigmatiche, di grande bellezza. E poi c’è la lingua, così limpida e alta, di una compostezza formale inusuale, degna di un classico, che ci consegna alla fine tra le mani un frammento lirico dal valore e dall’incanto straordinari.
Oggetto del romanzo è un profondo sconvolgimento interiore, “una lunga malattia che si era fatta tutta” ci dice qualcuno nelle ultime righe, che ha pervaso l’animo della scrittrice Giulia Berri-Orff per circa un anno, a causa di un mondo avverso che non la riconosce, che la nega, e nel quale stenta a sentirsi reale (sono le circostanze, ci dice lei, ad ostacolarla) nonostante le opere e l’attività letteraria feconda a cui dà vita, una condizione di grande crisi esistenziale, da cui capiamo che il titolo Agonia andrebbe inteso nel senso etimologico di lotta, o ancor meglio, come agònia, cioè di lotta per la vita, in cui, tra le vicissitudini varie e impreviste dell’animo va compreso anche quell’amore nel quale Giulia è incorsa mesi addietro e che l’ha vista indecisa fino all’ultimo, incapace di cedere o meno alla passione, alla nuova vita che le si apriva dinanzi, e in cui può scorgere ancora, a distanza di tempo, la possibilità avuta di ricongiungersi alla sua metà perduta. È un amore che, nato dalla consonanza e dall’affinità profonda tra i due, aveva dovuto fare i conti con il calmo e sicuro amore coniugale da cui lei non ha voluto disgiungersi, perché fatto ancora di “un grande ideale armonico“, non prima però dei comprensibili tormenti interiori (da qui la battaglia ch’e l’ave dal core, come avrebbe detto il poeta, o per usare le parole della scrittrice: “Oscilla la sua mente, oscilla il suo cuore, oscilla tutto il suo essere, in quell’altalena sconvolgente tra l’irresistibile fascinazione del nuovo, effimero, iridescente amore e la fedeltà al vecchio, splendido eterno, multiforme, sicuro amore, in un crescendo emozionale che si sta facendo insopportabile.“)
È una narrazione in cui non mancano sogni ad occhi aperti e visioni dal profondo significato simbolico, a cui alludono L’isola dei morti e la Medusa di Böcklin riportate in copertina, come anche qualche premonizione, visto che la mancata unione tra Medusa e Nettuno evocata nelle prime pagine del romanzo pare introdurre, col senno di poi, quell’amore non compiuto con cui si conclude la vicenda (visione poi svanita perché la potenza ispiratrice s’interrompe).
E poi c’è la lingua, come dicevamo. La San Guedoro ci regala una esempio di grande maestria formale, mostrando una perizia straordinaria nella modulazione di un tono lirico, fortemente esibito nella pagina, che si avvale di una parola dalla grande capacità evocativa, dalla grande potenza visiva, tanto da tradursi in immagini di una bellezza immediata, nitida e misurata (“Nevicava nelle maniere più libere e fantasiose. Con il cielo azzurro, per esempio, si vedevano minuscoli fiocchi bianchi planare lenti come soffioni… Di giorno cieli pastello, al tramonto di trasparente porcellana, di notte sottili falci di luna coricate sui tetti, stelle splendenti, silenzio.“), e in una sintassi ricca di rimandi, di riprese ritmiche di sintagmi tra un capoverso e l’altro (“Una città calda, dove tutto era carnale. Dove di notte il lastrico delle vie (…) Dove, nel nero della notte estiva, il vento (…) E nei bassi, sul lato del cortile, (…) E i profumi violenti invadevano come spire (…) E le voci e le canzoni s’intrecciavano,(…) Erano due città troppo antiche. Erano in verità due città scomparse…“), così che non si sbaglierebbe a leggere ogni singolo capitolo come una breve partitura dell’anima (“Erano percorsi, dalla prima all’ultima parola, da una vibrante musica interna. Balzavano fuori dallo sfondo convenzionale per l’originalità di temi, delle angolazioni e dello stile. Brillavano per la cristallina nettezza linguistica. Nascevano sempre da una personale, amorosa ed emozionante esperienza culturale.“). È una lingua colta e lontana dall’ordinario, che rifugge dal prosaico, con la quale sembra che l’atto letterario riesca a nobilitare il quotidiano, a riformularlo in una dimensione più alta nella quale tutto si trasfigura, in cui i ricordi e le vicende vissute si consegnano definitivamente alla perfetta dimensione dell’idillio, creando altresì una tensione enorme tra il ribollire magmatico dell’animo che si dibatte e una forma espressiva sobria ed apollinea.
Non meno plausibile apparirebbe l’idea, nell’ambito di una lettura intertestuale che mettesse in rilievo, seppure come ipotesi, le relazioni tra questo romanzo e i due maggiori che l’hanno seguito, di vedere nell’unione non compiuta, non elaborata di cui ci parla Agonia, come l’abbrivio per un percorso di riflessione sull’amore che troverà invece compimento altrove, laddove verrà accettato e vissuto con tutte le conseguenze immaginabili. Se volessimo spingerci ancora oltre, in conclusione, si direbbe cioè che la protagonista di Agonia, non cedendo al nuovo amore, che resta solo sfiorato, voglia sottrarsi dal cadere nella hybris, ma finanche dall’incorrere nell’Ate (e nella nemesis) che si avvererà nel romanzo successivo, come in ogni grande dramma classico che si rispetti.
Recensione apparsa su Lankenauta
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