L’imitazion del vero

  Congedata l’esperienza del Pantarèi, la brillante macchina narrativa con cui aveva ripercorso buona parte della storia del romanzo del Novecento, e desideroso di sperimentare altro, di rimettersi in gioco ma anche di continuare a interrogarsi sullo statuto di questa forma letteraria e sulle possibilità offerte dalle altre forme della tradizione, Ezio Sinigaglia nel 1989 portò a termine, dopo un anno di lavoro, L’imitazion del vero, oggi lodevolmente proposto da Terrarossa Edizioni (già artefice della riscoperta del Pantarèi), una novella che tra invenzioni mirabolanti, astuti inganni e ribaltamenti di ruoli inaspettati, ci racconta senza nulla nascondere e senza ipocrisia alcuna la vicenda di un amore omoerotico, declinato di volta in volta con gli accenti più vari (dall’avido, impetuoso, ardore iniziale a una dolce, sincera tenerezza quasi filiale), toccando magistralmente tutte le corde dell’animo dei personaggi.

Avvalendosi di una struttura diegetica semplice ed essenziale, priva di inutili digressioni che avrebbero solo minato la tensione narrativa che pervade invece l’intera storia, Sinigaglia ci racconta infatti con abili tocchi la passione di Mastro Landone, falegname e geniale inventore di macchine, “un gigante dalla barba d’oro“, per il garzone Nerino, giovane di straordinaria bellezza, “nero d’occhi e di pelo com’un saraceno“, che lo ha lasciato a prima vista “come colui che la folgore subitamente trapassa” e per possedere il quale, lontano dagli occhi dei cittadini di Lopezia che han messo al bando ogni tipo di amore che non sia “convenzionale”, nelle notti febbrili in cui il desiderio si fa più acuto fino a divenire irresistibile (“Viveva Mastro Landone e giorno e notte del carnal desiderio in sull’ardenti braci, e tanto più dell’usato codesta fiamma divampava che giammai gli pareva, al paragone, di non aver nella vita desiderato veracemente creatura nessuna.“) costruisce una sbalorditiva macchina del piacere che si rivelerà in breve tempo essere un inganno, ma anche l’espediente narrativo che mette in moto e fa procedere la vicenda.

È innanzitutto una novella nella quale Sinigaglia esibisce una grande padronanza stilistica, da autentico artefice della parola, che sa piegare e modulare a proprio piacimento la lingua italiana sulla falsariga di quella tradizione novellistica che tanto ha dato alla nostra storia letteraria e che viene da lui recuperata non solo a livello lessicale e sintattico (nonché retorico, abbondano infatti le anastrofi e gli iperbati, le enumerazioni, le metafore e le similitudini, le iterazioni sintagmatiche dal velato fine umoristico), ma con un senso così profondo per la prosodia da raggiungere in molte pagine i vertici della vera poesia, e senza che ciò comporti in alcun modo una pur minima diminuzione del piacere della lettura o un aumento della difficoltà della stessa (“La mattina, mentre all’opera sua attendeva, quantunque Nerino sol di rado dalla bottega in sulla soglia dell’officina apparisse, l’aria era di Nerino ricolma siccome è talora ricolma d’uno odore di fieno o d’arance o di mare, quantunque in nessun luogo la marina o gli aranci od i campi mietuti non si vedano; e in quel sentor di Nerino muovendosi, respirava Mastro Landone ad ogni istante il suo crudele destino.“). La brillante e fine leggiadria che si può cogliere invece tra un episodio e l’altro della novella fa sì che il lettore sia preso da un vero e proprio “incantamento” (tipico delle fiabe o delle novelle antiche, appunto) che non può che indurlo a guardare il mondo degli uomini con occhi più benevoli, a sorridere dei loro desideri, delle loro presunte mancanze, delle tentazioni che li rendono così autentici e così bonariamente comprensibili, spingendolo a rinunciare, in ultimo, anche a ogni malevolo pregiudizio (la collocazione temporale della vicenda nel passato, agli inizi dell’età moderna, farebbe inoltre pensare alla volontà di rendere l’argomento più “accettabile”, così come la scelta di proporlo sotto forma di novella o di “sollazzevole istoria”, alla Balzac, per intenderci, ma pur sempre come finzione narrativa, addolcendone cioè la carica eversiva e deflagrante).

È altresì una novella che propone rilevanti nuclei tematici, che esibisce per esempio un gioco sottile tra il desiderio amoroso e l’elusione dello stesso, o meglio del suo appagamento, dettata esclusivamente dalla necessità di sfuggire all’insulsa crudeltà delle leggi degli uomini (“lo metterebbero ai ferri e gli mozzerebbero gl’orecchi ed alla gogna per sette dì e sette notti lo terrebbero esposto”), alla condanna che potrebbe abbattersi all’improvviso sui protagonisti che vorrebbero vivere una sessualità non conforme alla praeceptio morum, a causa della quale la passione omoerotica non può che trovare espressione nell’imitazione di se stessa attraverso l’espediente della macchina del piacere, cioè di un surrogato “artificiale” (l’incontro vis à vis tra i due personaggi viene sempre dilazionato), che poi a sua volta macchina non è (non a caso Sinigaglia ha parlato altrove anche di “imitazion dell’eros”).

La stessa divisione del corpo – altro tema centrale nella novella – tra un “sopra” in cui la coscienza cerca vendetta e un “sotto” materiale aduso ai piaceri, oggetto di riflessione nella notte tremenda della scoperta di Nerino, che genera il dissidio interiore che lo porta ad essere confuso, combattuto, disorientato, affranto, a non avere una piena accettazione di sé e della natura del proprio piacere (Petruzzo si sente addirittura diviso in quattro parti: “Or qui si vede dunque come Petruzzo le sue prime prove d’amore con contrastato animo vivesse, sperimentando e nella carne e nel sentimento, insieme col piacere, l’ansia e la pena che sempre col piacere l’amor suol mescolare.“), trova nella minaccia dello stigma sociale le sue cause più profonde, a dimostrazione di quanto quanto possa essere feroce la violenza esercitata da una morale che demonizza il piacere medesimo e che pretende di controllare anche la sessualità dei singoli in base a dei principi ritenuti erroneamente universali (e questo in un mondo in cui persino Dio appare “più misericordioso assai degli uomini che d’interpretarne i disegni si credono”).

Non meno significativo appare dunque il messaggio affidato alle parole di Mastro Landone, allorché, quasi al termine della vicenda, esclama con una meraviglia che sa di rivelazione: “Oh non è vero dunque quel ch’il mondo crede, che vi siano un amor sacro ed un amor profano! Oh vedi dunque com’ha fatto Iddio di mettere in ciascuna forma d’amor la Sua luce!” che ben potrebbero avere il valore per il lettore di un insegnamento da custodire con attenzione.

Sono aspetti che rivelano un autore che non ha alcun timore di osare fino in fondo con la propria opera, nei contenuti e nelle scelte formali, che fanno di certo de L’imitazion del vero un libro non comune, non accostabile alle tante proposte scialbe di molta editoria odierna che purtroppo vanno per la maggiore, ma che ha tutti i pregi di quella che ci piace chiamare, sempre più raramente negli ultimi tempi, fine letteratura.

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Recensione apparsa su Lankenauta.

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