Raccontare la modernità: a tu per tu con Gianluca Massimini

intervista a cura di Giulia Pieretto

Oggi conosciamo Gianluca Massimini. Nato a Pescara nel 1974, dopo gli studi universitari ha svolto varie attività, vivendo per qualche anno a Bologna e successivamente a Vicenza, città nella quale risiede tuttora. Ha pubblicato molti racconti su rivista (Paradiso degli Orchi, Versante Ripido, Critica Impura, Fralerighe) e le raccolte “Eravamo insieme” (2010) e “Che cosa siamo, che cosa non siamo” (2015).

Gianluca è professore e scrittore. Cos’è nato prima: l’amore per l’arte dello scrivere o la passione per trasmetterlo?

G. Il primo, sicuramente, e poi il piacere di condividerlo. Ho cominciato a leggere i classici molto presto e sostanzialmente da autodidatta, quando da ragazzo ho scoperto di avere a disposizione una biblioteca di paese fornitissima e subito la mia curiosità si è accesa. Ricordo tra i primi libri presi I Demoni di Dostoevskij, Il Castello di Kafka, Il processola Recherche… Ero ancora molto giovane ma la lettura di queste opere mi ha sicuramente indirizzato e ha dato un’impronta decisa al mio gusto. Da lì è nata la mia passione per lo scrivere.

Ti va di raccontarci la tua evoluzione come scrittore e la tua scelta per la forma breve del narrare?

G. La mia evoluzione è sempre stata guidata dalla volontà di trovare la mia voce e di esprimerla nel modo più opportuno. Ho sempre inteso la scrittura come una ricerca personale, spesso al di là dei condizionamenti esterni, tipo il mondo editoriale, che non sono mai stati vincolanti. Ho iniziato con dei testi molto brevi, molto difficili da redigere, con l’intenzione di coniugare immediatezza e visibilità in poche pagine, anche solo una o due, per far emergere la semplicità apparente della materia narrata, però con uno stile molto personale. Alcuni di questi testi sono poi confluiti nel mio volume Eravamo insieme, che ho pubblicato dopo molti anni, nel 2010. Amo ancora molto alcuni pezzi di quel libro, dove tutto emerge e viene detto senza dire, dietro la cui apparente immobilità si cela invece un mondo. Ho scelto la forma breve perché al momento esprime al meglio il mio modo di sentire, nel senso che non si può narrare, a mio avviso, quello che non si è. Come le scelte tematiche, anche quelle formali non sono mai casuali. Ritengo inoltre la forma breve più adatta ad esprimere l’oggi, la brevità, la velocità, il detto e il non detto, l’immediato della società contemporanea. Anche perché spesso il mondo si rivela per frammenti, per scoperte e negazioni, difficilmente riconducibili a una visione sistematica, più adatta al romanzo. È significativo poi che anche uno dei libri più importanti degli ultimi decenni, Underworld di DeLillo, sia un esempio eccelso di frammentazione, dei ricordi e delle vite, è un mettere insieme tanti cocci in una forma romanzo che li tiene, dove è una palla da baseball che porta avanti (o indietro) la narrazione, tanti piccoli rivoli tenuti assieme dalla rilegatura. Cosa già accaduta in Musil, comunque.

La tua ultima pubblicazione è la raccolta di racconti “Che cosa siamo, che cosa non siamo” (2015), un e-book acquistabile cliccando qui. Credo che questi racconti siano traboccanti dell’eterna danza tra l’uomo e la donna, dove certo l’amore è componente fondamentale, ma dove è anche il grande tema della comunicazione, o meglio della mancanza e dell’inefficacia della comunicazione, a farla da padrone.

Quante volte nella vita capita di provare qualcosa e non essere ricambiati allo stesso modo? Quante volte si sbagliano i tempi? Quante volte nelle coppie prevale il demone dell’incomunicabilità che costruisce muri invisibili tra le pareti domestiche? Ecco io credo che tutti i tuoi personaggi siano i rappresentanti perfetti della crisi che investe la quotidianità, il lavoro, i rapporti umani, la sessualità, la famiglia. È il ritratto di una società in evoluzione, la nostra società, ed è per questo che molti leggendo si ritroveranno in questo o quel personaggio. C’è un messaggio profondo che porta luce in questo rovesciamento: gli sconfitti non si danno per vinti, vivono alla ricerca di un’alternativa – sia anche un amante – e in essa trovano la forza per andare avanti.

Da dove trai spunto per i tuoi racconti?

G. In genere prendo spunto dalla vita di tutti i giorni, da quello che accade, che mi capita, oppure da certe riflessioni che “ritornano” con insistenza. In merito a Che cosa siamo, che cosa non siamo, qualche anno fa c’è stato un periodo in cui avevo tra le mani dei testi di Musil in cui lui ha indagato la condizione della donna ad inizio Novecento, e il suo rapporto con l’uomo, quando qualcosa tra i due sessi cominciava già a muoversi, a non andare più nel modo consueto e canonico, il che mi ha fatto pensare anche ad alcune novelle di Lawrence, e mi sono detto: perché non parlare delle coppie di oggi, perché non tentare una disamina, un bilancio, ben sapendo che i bilanci non sono mai definitivi, e ho ripreso alcuni testi miei che avevo già, sparsi. A quel punto un’idea di libro che avevo solo abbozzata si è concretizzata in una forma più chiara e dopo un po’ di tempo ho portato a termine la raccolta.

Un’altra cosa che salta all’occhio è il periodare amplio e fluido che fa ampio uso del discorso libero. C’è qualche campione della narrativa breve a cui ti sei ispirato e ti ispiri nel dare forma al tuo stile?

G. No, non c’è. Non mi piace avere dei “padri”. Ovviamente conosco bene Checov, Hemingway, Carver… Cito loro perché vengono sempre chiamati in causa quando si parla di narrativa breve, ma il mio è un discorso personale, direi che non scrivo neanche per un pubblico, o per vendere. In questo senso i miei racconti sono delle domande che pongo al lettore. Quindi non ho punti di riferimento, e neanche li voglio avere, anche perché amo chi naviga per mari sconosciuti e non chi ripropone inutilmente modelli o stili. Credo che mi abbiano più influenzato i nostri tempi, la società in cui viviamo, dove tutto sembra essere breve, immediato, simultaneo, a scapito delle grandi narrazioni, e poi un certo modo di sentire, il mio temperamento. L’uso del discorso libero mi serve per esprimere e rispecchiare bene l’oggi e far emergere i caratteri. Avrei dovuto spiegare quest’ultima cosa a quel redattore che mi ha detto che non pubblicava un mio racconto perché alcune parole si ripetevano.

Ora vorrei curiosare nella stanza in cui scrivi e chiederti: come nasce un racconto?

G. Un racconto non nasce mai tutto in una volta. Ci sono sempre tanti piccoli elementi che a un certo punto si combinano e che danno vita a una storia: un ricordo, un’immagine, una frase, delle cose su cui rifletto… A volte occorrono anni affinché una storia si concretizzi nella sua forma perfetta, a volte meno. Ti porti dietro i tuoi pezzi per tanto tempo, li osservi, li prendi a cuore come figli, ogni tanto li rileggi, poi un giorno finalmente giungi alla fine, quasi per legge naturale, lo senti. C’è da dire che a volte un racconto finito non coincide esattamente con l’idea che l’ha originato, e che ci sono sempre molti racconti che restano incompiuti perché ti accorgi che non girano, non vanno, l’idea sembrava buona e la storia su carta no… Poi quando li hai pubblicati scopri che altra storia è quella che legge il lettore…

Da scrittore, ma forse soprattutto da professore, cosa senti di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che hanno, a tutti gli effetti, poco più dell’età dei tuoi studenti?

G. Direi innanzitutto di seguire sempre la propria voce, di non perderla d’occhio. È la cosa più importante. Ci sono tante persone che scrivono cose inutili, che ripropongono modelli, storie, senza alcuna consapevolezza di quello che fanno (penso alla inutile narrativa di genere che io odio). Direi di avventurarsi in questa ricerca senza paura, per terre incognite. È molto più proficuo, per la letteratura, intendo. A meno che l’obiettivo che ci si proponga al mattino, quando si è svegli, sia quello di sfoggiare un catalogo di libri editi per sentirsi gratificati. I grandi scrittori sono stati quelli che non hanno avuto paura di osare, di sperimentare, di portare avanti le loro idee anche a caro prezzo, misconosciuti, ignorati.

Quando ci siamo sentiti la prima volta, hai proposto alla nostra redazione un progetto molto interessante che prenderà la forma di una rubrica a cadenza (bi)settimanale nelle prossime settimane. Ti va di dare qualche anticipazione in merito?

G. Sì, ho sempre avuto l’intenzione di avviare una ricognizione tra scrittori e critici sullo statuto del racconto, sulle sue potenzialità e su quanto il racconto possa fare per l’oggi, per la nostra società, e questo per dare la giusta dignità letteraria a questa forma che in Italia (non altrove) ha sempre pagato lo scotto di essere ritenuta secondaria rispetto al romanzo (a quali romanzi poi, in Italia?). Quest’ultimo aspetto è il frutto di una cultura esterofila e provinciale, che nega qualsiasi esistenza a chi scrive racconti. Non ci sono spazi, se non su riviste, e neanche su tutte. Spero che tutti quelli che saranno interpellati vogliano partecipare, perché ritengo utile confrontarsi e dibattere.