Scrittore contro. L’opera di Leonardo Sciascia

  Fu lo stesso Sciascia a dichiarare in un’intervista a L’Espresso del 1983: “Se qualcuno mi corre dietro chiamandomi intellettuale, non mi volto nemmeno“, come a voler sottolineare, probabilmente, l’intenzione di sfuggire a un’etichetta precostituita, ad un incasellamento troppo semplice e fuorviante, che poco si prestava a rendere l’idea di un “libero letterato, dissidente e disobbediente“, sempre lucido nel mettere in chiaro i meccanismi del potere e della malavita e i contrasti del suo tempo.

In Scrittore contro. L’opera di Leonardo Sciascia, breve saggio edito di recente da Editoriale Jouvence, Stefano Lanuzza rilegge l’intera opera dello scrittore di Racalmuto mettendo in luce proprio questo suo atteggiamento, questo suo essere “contro“, che lo ha contraddistinto e accompagnato ovunque, da quando giovane denunciava l’ingiustizia sociale ne Le parrocchie di Regalpetra (1956), ai romanzi maggiori e più noti, fino alle opere della maturità, senza tralasciare i saggi, le raccolte di articoli e di interviste (La corda pazza e Cruciverba in primis), nelle quali molte sue affermazioni, a rileggerle ora, paiono assumere davvero un valore profetico.

Ci ricorda per esempio come fu Il giorno della civetta (1961) a dare avvio a un ciclo narrativo che parlava di mafia in tempi nei quali la stessa esistenza dell’organizzazione mafiosa veniva addirittura negata della politica al governo dell’Italia, un romanzo che è rimasto, a quanto pare, tuttora “scomodo” se anche Camilleri, qualche anno fa, non esitò a dichiarare: “è uno di quei libri che non avrei voluto fossero mai stati scritti. […] Non si può fare di un mafioso un protagonista” (Il Fatto quotidiano, 2009), e nel quale già Pino Arlacchi molti anni prima (La Repubblica, 1993) aveva affermato di aver trovato “delle robuste tracce di qualunquismo e di vigliaccheria“, salvo poi essere smentito da Nicola Tranfaglia, sullo stesso quotidiano, una settimana dopo, che riconosceva invece a Sciascia il merito “di individuare assai precocemente nelle indagini finanziarie uno dei fulcri di una lotta efficace contro Cosa Nostra e suoi alleati“, aggiungendo ancora: “a Sciascia scrittore dobbiamo negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, una serie di intuizioni e spunti che aprono a chi fa ricerca storico-sociologica scenari di grande penetrazione sull’Italia contemporanea“.

Il contesto (1971) – un libro che, come affermò lo stesso autore su Positif nel 1976, offre “una rappresentazione paradossale e parodistica di un potere senza ragioni ideologiche, di un potere-delitto (…) che arriva ad assimilare, a degradare e corrompere persino le forze che gli si oppongo o gli si dovrebbero opporre” – sembrerebbe addirittura annunciare, secondo Lanuzza, con qualche decennio di anticipo il torbido malaffare emerso con le inchieste giudiziarie di Mani pulite, mentre è con Todo modo (1974) che lo scrittore siciliano prima e meglio di chiunque altri ci ha raccontato la connivenza tra politica ed economia criminale, tanto che persino Calvino ebbe a scrivergli “questo è proprio il romanzo che occorreva per dire che cosa è stata e che cos’è l’Italia democristiana, e nessuno è stato capace di scriverne prima di te.” Cosi come appare “una scelta di umana dignità e di opposizione al potere che vorrebbe asservire anche la scienza” quella di Ettore Majorana narrata nell’eponimo La scomparsa di Majorana (1975), testo che gli provocò la riprovazione del fisico Edoardo Amaldi, che rimproverò a Sciascia di non aver riportato la verità storica ma di aver lavorato solo di fantasia.

Un che di profetico sarebbe riscontrabile, col senno di poi, anche nel breve saggio storico I pugnalatori (1976), dedicato al complotto palermitano del 1862 contro il nascente Stato italiano, che parrebbe anticipare, straordinariamente, le trame eversive culminate nel rapimento di Aldo Moro (“Penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute” dice Crispi a conclusione del saggio), vicenda quest’ultima che sarà in seguito oggetto di analisi da parte di Sciascia ne L’affaire Moro (1978), in cui, senza smentire la sua natura di “scrittore contro”, non proporrà la consueta descrizione di Moro come ‘grande statista’ ma quella di ‘esemplare democristiano’ (come deputato della Repubblica italiana nel Partito radicale Sciascia fece parte dei quaranta membri della “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia“).

La vena polemica dello scrittore non sembrò risparmiare neanche l’allora Partito Comunista italiano se, come pare, possiamo leggere tra le righe di Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia del 1977 la rappresentazione della sua esperienza politica all’interno del medesimo partito, poi conclusasi con l’uscita dello scrittore per divergenze politiche (nella finzione letteraria Candido riesce a farsi cacciare del partito come importuno provocatore) e in cui con un tono fortemente satirico, sulla scorta di Voltaire “l’autore stigmatizza ideologie o ‘idee ricevute’, assiomi storici e utopie (…) liquida , insieme al fallimento d’un comunismo male applicato, cristianesimo psicanalisi famiglia scuola politica” e di cui Sciascia ebbe a dire: “ho voluto inventare una formula di felicità che consisterebbe nel ‘coltivare’ la propria testa piuttosto che il proprio giardino; di fidarsi più di quello che noi pensiamo, piuttosto di quello che altri pensano per noi, e non cercare di ridare vita a cose morte“.

Sempre all’interno della medesima prospettiva, Lanuzza non manca di ricordare gli attacchi alla Democrazia Cristiana e allo strapotere ecclesiastico nel saggio storico Dalle parti degli infedeli (1979), in cui Sciascia divulga e commenta il carteggio intercorso tra Angelo Ficarra, vescovo della Diocesi di Patti, e la Sacra Congregazione Concistoriale, presieduta dal cardinale Adeodato Giovanni Piazza, così come il famoso articolo, che al tempo fece scandalo, I professionisti dell’antimafia apparso sul Corriere della Sera nel 1987 che, più che colpire il giudice Paolo Borsellino, intendeva probabilmente stigmatizzare alcuni aspetti poco chiari, secondo lo scrittore, nelle nomine effettuate dal Csm, articolo che gli valse la riprovazione degli iscritti del Coordinamento antimafia di Palermo e di alcuni giornalisti allora influenti. Lanuzza spinge la sua analisi fino a Una storia semplice (1989), titolo apparso in libreria negli stessi giorni della morte dell’autore, che potrebbe essere considerato a tutti gli effetti “il disincantato testamento di chi come Sciascia, volendo credere alla ragione fondante la verità e la giustizia, fa definitivamente i conti con uno sbarramento di omertà, corruttele, connivenze, meccanismi investigativi inceppati, paralizzanti burocrazie “.

Si precisa in questo modo, a tutto tondo, nelle agili pagine di questo saggio, la figura di uno scrittore che “contro i poteri e deluso dalla giustizia, vuole credere nella giustizia della letteratura intesa quale forma di conoscenza” poiché – come disse lo stesso Sciascia – “nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende” (La strega e il capitano).

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Recensione apparsa su Lankenauta.it