La verità dei topi

  La verità dei topi di Massimiliano Nuzzolo, edito da Les Flâneurs Edizioni, è un romanzo davvero allegro, ironico, che ama giocare molto con i generi narrativi e condurci con leggerezza in storie assurde e rocambolesche.

È infatti un libro che fa dell’ibridazione il suo punto di forza, una sorta di piccolo pastiche, che inizia o dà l’idea di iniziare come un thriller di fantapolitica (“Mr. Kospic, quante volte le abbiamo detto di non mettersi in contatto col nemico? (…) Nel suo cappotto abbiamo trovato il microfilm.“) ma che vira presto su atmosfere e toni da realismo puro (“Aveva conosciuto da subito la fame e la strada e, ben presto, aveva dovuto ingegnarsi a trovare un modo per sbarcare il lunario.“) e che prosegue con i tratti tipici di un bildungsroman, sebbene non canonico per i termini in cui ci viene proposto (“Passarono gli anni ed Henry beneficiando delle sue facoltà e della benevolenza delle fanciulle impiegate nelle case di sua proprietà non ebbe mai a soffrire della mancanza di una donna“), con avventure e colpi di scena che possono da un momento all’altro premiare un povero e farne un ricco, e che converge, a un certo punto, in una classica narrazione fiabesca i cui personaggi si perdono nei boschi (“Al mattino il canto degli uccelli lo svegliò di buon umore. Il sole filtrava attraverso i rami alti del bosco e disegnava piccole figure di luce tutt’intorno.“) e fanno strani incontri (“E il topo sorridendo rispose: “Tu mi stai simpatico. So che a Caracas catturavi i miei parenti..“), con la possibilità addirittura di finire in altri romanzi (“Poi il giovane continuò: “Scusate, non mi sono nemmeno presentato. Piacere, Grenouille, garzone profumiere in viaggio da Parigi”). Il risultato è un intreccio sempre pronto a sorprenderci, a disattendere le nostre attese, a sviarci dai percorsi intrapresi e consueti, che ci presenta delle evoluzioni mirabili davanti alle quali non possiamo non sorridere.

In primo luogo, grazie a una scrittura rapida e coinvolgente, facciamo conoscenza della stravagante Marchesa Du Marchand, donna dal passato torbido e dai modi disinvolti, a dispetto del nome (Beatrice), che nei vicoli sporchi e malfamati di Caracas, come in un racconto esemplare ma che di morale ha ben poco se non l’intenzione parodica, conosce e si lega a un trafficante di coca per divenirne ben presto erede per meriti di letto. Seguiamo poi, e sempre divertendoci, le vicende del giovane Edgar, da lei adottato, dapprima in un collegio svizzero, dove i compagni hanno tutti nomi di fisici illustri, e più avanti su un’isola deserta, episodio che dà modo all’autore di evocare e parafrasare Defoe e il Robinson Crusoe con una parentesi dai toni esotici, da romanzo d’avventura delle origini, così come il ritorno nel mondo civile e uno sventato rapimento gli permettono di tirare in ballo I viaggi di Gulliver e l’Alice di Attraverso lo specchio. Il romanzo, in questa sezione, assume una veste completamente fiabesca, con la presenza dei personaggi di Carroll e di topi giganti, ma anche di Superman, di Baudelaire, addirittura di un Camus nascosto dietro la figura di uno zio, e ci conduce persino in alcuni passi di Hemingway o di Boris Vian, nomi dietro ai quali si nasconde certamente un canone.

Tutti questi elementi extratestuali, non solo letterari, arricchiscono la materia narrativa di echi e di collegamenti, andando a comporre un enorme ipertesto dai molteplici rimandi, dalle relazioni multiformi e profonde. Alcune pagine, per esempio, risentono molto del Candido di Voltaire e della sua vena tragicomica, il che permette all’autore di prendersi gioco dei luoghi comuni più vari, descrivendo un mondo capovolto e straniato a dovere. Sotto le righe, insomma, è sempre possibile leggere un riferimento “altro”, a un classico o a un film famoso, a una fiaba nota o a una canzone, ogni volta riproposti e ricontestualizzati ex novo.

Ne risulta alla fine un viaggio che, forte di questa tecnica compositiva, chiede al lettore di lasciarsi coinvolgere dalle vicende e dalle allusioni senza pregiudizi, per riderne ma anche per riflettere, magari per scorgere sotto la superficie tersa della scrittura una qualche correlazione inconsueta che può suggerirgli un qualcosa di nuovo, ma anche un grande divertissement che ripone la sua fiducia nella letteratura e nel fatto che possa in ogni caso tenerci in vita, come ci insegna la parabola di Edgar, il protagonista, che pur di non morire sotto le mani dei suoi carcerieri, inventa e reinventa tante storie come una moderna Sherazade.

Recensione apparsa su Lankenauta.

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