La linea dei passi

  Se quella del viaggio è forse la metafora più appropriata per indicare un percorso che può coincidere con la nostra vita e se il fatto di scriverne, di scegliere le parole e le frasi più adatte, può aiutare a rinvenire un segno, una traccia in cui chi ha viaggiato si riconosce fino a prendere atto del proprio nome nonché del proprio volto, allora i racconti presenti ne La linea dei passi (Edizioni Helicon) di Enzo Rega paiono riuscire appieno nell’intento di fornire al lettore il senso di un itinerarium e di restituire a posteriori i tratti e la fisionomia compiuta di un autore che ha fatto della volontà di indagare e di capire il mondo che lo circonda la cifra maggiore della sua ricerca.

La raccolta infatti, caratterizzata da una prosa poetica che esibisce una scelta lessicale non comune le cui suggestioni sonore concorrono a una resa potente delle immagini e delle situazioni, degli incontri e degli episodi in genere, si compone di ventuno racconti di varia misura, ibridati a volte col genere della lettera e della pagina di diario, e va a coprire un arco temporale molto vasto – alcune pagine risalgono addirittura agli anni Ottanta, Novanta del Novecento – tanto da risultare un resoconto quanto mai completo di alcuni decenni di vita dell’autore.

Portato a interrogarsi e a far emergere, per naturale inclinazione, il senso recondito e i tracciati sommersi del reale, le prospettive possibili o inusitate che si aprono col quotidiano, l’io narrante palesa innanzitutto l’urgenza di affrancarsi da ciò che appare incomprensibile, dalla constatazione semplice dei fatti, come a voler negare che un movimento, anche qualora si dimostri falso, possa consistere solo nell'”abbandonare uno stato per andare in un altro“, come ci ricorda Niccolò Da Cusa, citato in esergo in Amsterdam Sketches: ciò appare evidente in vari luoghi e in vari modi, vuoi nella descrizione di una città che ama blandire e promettere chissà cosa, sia pure un amore, vuoi che il viaggio si riveli a poco a poco una fuga dall’ordinario, ancor più quando agli occhi dell’odierno viandante risulti essere solo una delle “esasperate peregrinazioni” dell’io (“È il fiato sul collo, il respiro pesante di una quotidiana sofferenza, presunta o reale, a spingere passi sempre più pesanti. Nei tratti tirati del volto c’è, appunto, come il piano di una fuga.” troviamo scritto in Da l’Aia, Olanda) in cui persino la lingua, a un certo punto, può rischiare di divenire muta.

Dinanzi all’indecifrabilità del mondo e di alcune metropoli, nonché di alcuni episodi occorsi all’io, si palesa dunque l’idea che solo il racconto, l’atto fisico del narrare, supportato da una intelligente propensione ad aprirsi a quello che accade, indipendentemente dal fatto che ciò che appare piaccia o meno, possa delineare profili prima di allora sconosciuti e giungere a dare nomi a cose e persone, a tracciare linee che si tradurranno in percorsi di senso. È proprio in questo prender forma del testo con le parole, nel suo divenire pagina di diario o lettera indirizzata agli amici, che si precisa il perché di un andare o di un restare, di un movimento volontario o istintivo, nato da un’esigenza interiore, ma anche l’identità ultima di chi l’ha compiuto, l’apparire di un volto che si rivela nell’incontro con la città e con gli altri, rispecchiandosi negli occhi degli altri (“io sono soltanto quello che m’è riuscito di dirvi” dice Handke, citato in esergo a Il racconto di Parigi).

È un viaggio al tempo stesso concreto e immaginario spesso preceduto dai viaggi della mente, indotto dalle pagine degli autori amati o da suggestioni visive che spesso fungono da chiavi interpretative utili a leggere al meglio ciò che circonda l’autore, tanto da far pensare che questo peregrinare non possa essere scisso quasi mai dalle immagini che si porta dentro, che hanno preso dimora in lui ancor prima di aver mosso un passo (“io cerco la città attraverso la sua immagine letteraria” ci dice l’autore, che in Discorso di Ishtar al narratore sul desiderio d’una città ci tiene a precisare: “Il tuo sguardo segue le vie d’una città come pagine scritte: anche lì i tuoi occhi, miopi a furia di leggere, vogliono ancora, e di nuovo, e di più leggere. E cosa vi cerchi? Semplice, il tuo desiderio, il tuo passato e, in questo, il tuo futuro.”). Per questo l’intera raccolta vuole essere anche un viaggio letterario tra le opere che l’autore ha più amato e che nel corso degli anni, del tempo, lo hanno spinto ad andare, a cercare, a indagare (“Si darà davvero, la gloriosa città di Milano, o non sarà un fumo?” scrive Landolfi, ripreso in esergo a Frammento milanese), a recarsi altrove per comprendere a volte che purtroppo “il proprio pensiero non si è fatto vita” (Pavese) o per scoprire, magari, che non sempre il mondo ci è lontano o straniero e che lo smarrirsi, il consegnarsi agli spettri o il cedere alle lusinghe di una città che si offre, il vagare in una terra incognita e il dimenticare chi siamo, è forse condizione necessaria per poter ritrovarsi. Fare esperienza del mondo diviene allora per l’autore anche un vagliare a fondo la veridicità dell’opera in sé, la sua affidabilità e quella della parola, della nominazione delle cose, un mettere alla prova il testo e la sua capacità di restituire adeguatamente la realtà dei fatti, un saggiare cioè la corrispondenza tra opera e mondo.

Nulla pare esprimere meglio la coincidenza tra viaggio e vita presente in questo libro di una frase di Italo Svevo, anch’egli presente tra le pagine di questi racconti: “Egli voleva fare la vita sua, cioè il suo viaggio” scriveva, come a ricordare la necessità di ottemperare a un desiderio che può divenire a volte un obbligo, a cui l’autore de La linea dei passi, a quanto pare, non si è sottratto.