La disputa sul raki e altre storie di vendetta

  Contraddistinta da uno stile sobrio ed immediato nonché da una conoscenza profonda della cultura e della società albanese odierne, La disputa sul raki e altre storie di vendetta (Besa Muci Editore) è un’interessante raccolta di racconti di Fabio M. Rocchi a cui va il merito di proporre una lettura estremamente acuta dell’Albania contemporanea, qui ritratta nei suoi molteplici aspetti.

Pur avendo infatti come filo conduttore il tema della vendetta, esibito già nel titolo, le pagine di Rocchi allargano il proprio sguardo a tanti altri elementi della più stretta attualità di questo Paese, quali il periodo di transizione, l’emigrazione, l’emancipazione femminile, l’incontro tra culture, l’integrazione, con il risultato di restituire al meglio sotto il profilo culturale, economico e sociale, una realtà che da qualche decennio si è lasciata alle spalle la tremenda esperienza del regime per andare incontro al futuro a braccia aperte, nel nome del riscatto e del rilancio, della ricostruzione.

Non è dunque un caso che i personaggi del libro risultino spesso in bilico tra un passato ancora determinante, con i suoi valori e le sue consuetudini radicate, che tanto li condizionano nel loro agire quotidiano fino ad indurli addirittura a compiere scelte estreme, e un presente che sembra aprire incredibilmente nuovi orizzonti e nuove possibilità di cambiamento ma con cui non è sempre facile fare i conti.

Se, nel volgere lo sguardo indietro, i giudizi dei personaggi risultano vari, spesso antitetici – c’è chi vi guarda ancora con nostalgia, ricordando i gesti di solidarietà perduta e di fraternità fra uomini, come il Kujtim di Non si decide a morire, chi invece ha letto nella caduta del regime di Ohxha uno scontro tra fazioni per accaparrarsi il potere, come Adana, e chi ancora, come Taulant in Il vicedirettore è al momento assente, plaude alla sua fine, salvo poi stentare a riconoscersi nei nuovi modi, nei tempi che sono cambiati – in linea di massima sono le vecchie generazioni ad essere tuttora ancorate all’antico sistema di valori. Nel loro caso non basta essere stati lontani, in Italia per decenni, per esempio, per dimenticare: la legge del padre, l’uso della faida, il richiamo al kanun e il legame che tiene in vita il clan, sono sempre validi, sono anzi il punto di riferimento, il linguaggio della tradizione all’interno del quale, solo dando corso alla vendetta, un uomo può rinvenire il proprio significato (I bulloni).

Di diverso avviso, invece, le nuove generazioni, e soprattutto le donne, grandi protagoniste di questa raccolta di Fabio Rocchi, le sole in grado di guardare al passato come a una pagina da chiudere in fretta per concentrarsi su un futuro che è, in fondo, una grande occasione di crescita, un’opportunità grazie alla quale cambiare il proprio destino. Se, infatti, L’imbutino è il racconto che meglio descrive la segregazione e la conseguente, inevitabile, disperazione di una donna, Aferdita, costretta ad adeguarsi alle regole di vita arcaiche ancora vigenti nelle zone interne dell’entroterra, pena la caduta su di lei dello stigma sociale, gli altri racconti ci propongono delle figure di donne emancipate, estremamente consapevoli della necessità di non commettere i passi falsi del passato.

Molto significativi a tal riguardo sono i dialoghi tra il giovane Arti ed Enrieta in Rinas-Frankfurt-Rinas, che ci mostrano come due civiltà e due sistemi di valori, il nuovo e la tradizione, possano incontrarsi più volte senza capirsi affatto. Mentre Arti, giovane che parte per Francoforte con l’obiettivo di raggiungere la sorella e di trovare un lavoro, rimane fermamente legato alla cultura di origine tanto da non riuscire in alcun modo a capire la nuova realtà che lo circonda e in cui non vede motivi per integrarsi né per comprendere le scelte della sorella emancipata (che sa apprezzare solo nelle vesti di domestica, finendo così con il replicare anche all’estero il ruolo di severo custode dei valori familiari), Enrieta è colei che nell’emigrazione ha visto la possibilità di costruire il proprio futuro e divenire indipendente, facendo tesoro della propria capacità di iniziativa e dell’attitudine a mettersi in gioco.

Adana, per esempio, la colta e intelligente protagonista di Clearcom.dot.com, partita in età acerba dall’Albania perché affascinata dall’Italia, da un mondo “altro” che in realtà non conosce, se non parzialmente da quello che ha visto sui nostri programmi televisivi nazionali, in un primo tempo si adegua ad ogni tipo di richiesta a lei rivolta pur di essere accettata, sopportando persino gli stereotipi che gli italiani le cuciono addosso, ma successivamente – e in modo stupefacente – prende coscienza della propria condizione, mostra i denti, esibisce la propria forza (il primo post del suo blog si intitola non a caso Io non sono arrivata col gommone), tanto da riuscire a trasformare il rancore provato in una opportunità di crescita personale e lavorativa.

Sempre sul tema dell’ipocrisia e degli stereotipi proposto dalla raccolta, altrettanto significative sono le pagine de Il Festival Internazionale delle letterature, un piccolo gioiello narrativo in cui vengono messi alla berlina tutti i pregiudizi, le false credenze, l’ingiustificato senso di superiorità degli italiani nei confronti della cultura albanese, di fronte alla quale la protagonista Isabella Chessi-Pessini non può far altro che ricredersi amaramente fino a percepire tutta la sciatteria, il vuoto e la superficialità del proprio essere, nonché la propria inadeguatezza al contesto in cui agisce, lo stesso da cui si evince la pochezza, la superficialità, la cialtroneria e l’opportunismo di buona parte dell’Accademia italiana, perennemente legata alle sue gerarchie, alle sue massonerie, alla sua mentalità lobbistica, a logiche professionali molto lontane da quelle meritocratiche.

Ne risulta alfine una raccolta che, oltre a ricordarci l’intenso e profondo legame tra l’Albania e l’Italia (rievocato da Rocchi con la suggestiva descrizione di Egnazia, la lunga strada romana che collegava Roma al porto di Brindisi e così a Bisanzio, passando per i Balcani), ci regala con una pregevole pluralità di voci un ritratto estremamente vivo, variegato dell’Albania di oggi, da cui non va disgiunto un senso autentico per l’ospitalità e la convivialità tra i popoli.

Recensione apparsa su Lankenauta