H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi

  Preceduto da un’acuta prefazione di Franco Cardini che pone l’accento sull’approccio del tutto nuovo che ci viene proposto, che mira ad offrirci l’immagine inusuale di un Hitler “umanamente comprensibile” e vero (che non vuol dire che vada assolto e perdonato per ciò che ha fatto ma che la forma narrativa può forse renderlo meglio decifrabile), questo breve romanzo di Johann Lerchenwald (J. Lerchenwald, H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi, pp. 245, Editoriale Jouvence, 2020) infrange a veder bene più di un tabù: innanzitutto quello della figura dell’invincibile condottiero promossa dalla propaganda di regime e dallo stesso dittatore, che nelle pagine lascia il posto invece a un uomo fragile, timido, spesso abulico e contraddittorio, con la testa piena di idee confuse, che gioisce, per esempio, per essere riuscito a farsi dichiarare inabile alla leva austriaca e che poco dopo corre ad arruolarsi volontario in Germania pur di dare un senso ai propri giorni; a un uomo quasi sempre tormentato, disperato, in più occasioni aspirante suicida, che, non avendo ancora un piano né un obiettivo accattivante da presentare al proprio uditorio, ma volendo porsi a capo di un movimento di massa, cerca le idee migliori nei comizi dei partiti democratici, tedesco-nazionali e tedesco-popolari per il programma politico della nascente DAP (poi NSDAP), ma anche a un cinico opportunista, estremamente abile nell’indovinare di volta in volta ciò che il pubblico vuole sentirsi dire, che riesce incredibilmente ad impressionare gli altri per la fermezza con la quale afferma di avere soluzioni per tutti i problemi, benché la sua vita sia contrassegnata da continue esitazioni ed incertezze (che non visitò mai, per capirci, un campo di concentramento per la paura di non reggerne la vista e sentirsi male), cioè in estrema sintesi a un astuto profittatore, che seppe bene come sfruttare a proprio vantaggio il meglio e il peggio del popolo tedesco.

Lerchenwald, in capitoli brevi ed essenziali, ne ripercorre la vita momento per momento, partendo dall’infanzia: da quando, umiliato e ferito dalla furia selvaggia e insensata di un padre che lo picchiava con una violenza di cui non riusciva a darsi spiegazione, si ripromise di ucciderlo non appena fosse diventato adulto perché violentava davanti ai suoi occhi l’amata madre, al noto episodio della mancata ammissione all’accademia di belle arti viennese, che sembrò precipitarlo in un disorientamento devastante; al fascino esercitato su di lui, sempre negli anni della sua permanenza a Vienna, dalle idee del pangermanista Schönerer e dal sindaco Lueger, “il re senza corona“, con i suoi rituali e le sue bizzarre pretese, le sue idee antisemite, “la sua istintiva capacità di captare gli umori popolari e di coniare seduta stante gli slogan corrispondenti“, alla permanenza nel ricovero per i senzatetto e al trasferimento a Monaco grazie all’eredità paterna ottenuta chissà come, e così via, di episodio in episodio, fino all’epilogo che noi tutti conosciamo.

Si tratta, è bene dirlo, di un romanzo dalla veste chiara e semplice che pesca però in un gran mare di fatti documentati e di testimonianze d’epoca, frutto di una ricerca dettagliata e approfondita, e la cui trasposizione letteraria risulta di sicuro vincente, più coinvolgente, rispetto all’esito che potrebbe avere un arido saggio composto esclusivamente di dati, perché va a sondare, con gli strumenti e gli artifici della letteratura, ciò che la scienza e la storiografia non possono spiegare: quello che avviene nell’animo umano, il perché avvenga, e come sia possibile che un uomo modesto e in più occasioni inadeguato, che si porta dietro le tare psicologiche di un’infanzia devastata, possa condurre in pochi anni un popolo e l’Europa intera allo sfacelo con il consenso e il supino adeguamento, con l’esaltazione, del popolo stesso. Gli riesce, cioè, di spingersi oltre il gran deserto di ciò che sfugge all’umana comprensione, andando al di là della scontata condanna dell’uomo e del dittatore, che è in ogni caso totale, fino a conseguire, come ci dice Cardini nell’introduzione, “l’encomiabile e ancora mai raggiunto risultato di dissolvere l’impenetrabile aura demoniaca di Hitler, creata intorno alla propria persona in primo luogo dal dittatore medesimo e dei suoi seguaci, ma perpetuata dai tedeschi del dopoguerra, nella fallace speranza di discolparsi di fronte al mondo, e dagli studiosi stranieri che hanno tentato di interpretare il fenomeno senza avere sufficiente dimestichezza con lo spirito tedesco.” Il mostro, infatti, viene subito ridimensionato e ricondotto a dimensioni umane con l’uso di un tono tragicomico, assunto spesso dalla narrazione a sottolineare l’incredibilità delle situazioni che si susseguono, anche agli occhi del dittatore, chiamando in causa, pertanto, le responsabilità del popolo tedesco.

Fuggendo dall’alibi assolutorio della pazzia, che poco o nulla spiega in termini storici o politici, Lerchenwald ci fornisce insomma un’analisi lucida e impietosa, ci mostra che quell’uomo stupito di fronte al grande consenso che gli veniva elargito, costretto per questo ad autosuggestionarsi per poter proseguire la propria pantomima, non era affatto il superuomo che la propaganda aveva ostinatamente cercato di far credere ma un uomo normale, che riuscì a intuire e a sfruttare al meglio l’amore dei tedeschi per l’ordine e la coscienziosità, il loro senso del dovere e dell’obbedienza (“A questo popolo basta prospettare qualcosa di migliore ed è già disposto a marciare” diceva ai suoi gerarchi) ma anche la loro imperdonabile sprovvedutezza e stoltezza, l’ingenuità con la quale gli accordarono piena libertà d’azione facendosi incantare e menare per il naso, giungendo purtroppo ad adorarlo e a seguirlo.

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