Bugie e altri racconti morali

Affidata quasi per intero alla voce narrante di Elizabeth Costello, già alter ego di Coetzee nel romanzo omonimo del 2003, ciò che più sorprende di quest’ultima raccolta dello scrittore sudafricano (Bugie e altri racconti morali, pp. 104, proposto a fine maggio da Einaudi) è senza dubbio la grande capacità di far emergere e sviluppare situazioni emblematiche partendo da dettagli minimi o da piccoli gesti, da pensieri essenziali, anche da quelli apparentemente più semplici e che si rivelano invece, alla lunga, importantissimi, assumendo spesso nella mente dei personaggi, e nella loro vita, un valore assoluto.

Oggetto del narrare sono infatti delle brevi vicende quotidiane riportate in modo sobrio e diretto, senza affettazioni, a cui seguono spesso i dubbi, i sensi di colpa, le domande senza risposta che i protagonisti del libro si portano dentro o pongono agli altri, e quindi a se stessi, nell’intenzione quasi sempre palese di aprirsi a un dialogo che possa condurli a una rivelazione autentica o a una lucida consapevolezza, a dare un nome alle cose e alle persone che li circondano, anche alle più familiari (“Nemmeno noi nasciamo con la faccia. Ci vuole molta pazienza a tirare fuori una faccia, come ad accendere il fuoco dal carbone. Io ti ho tirato fuori una faccia dalle tue profondità. […] È stato come evocare un’anima.” dice Elizabeth Costello al figlio John in La vecchia e i gatti).

Valga per tutti il primo racconto, anche questo esemplare, nel quale il destino capriccioso si incarna negli occhi di un chien mechant che aspetta una donna e le ulula contro dalla voglia di saltarle addosso e farla a pezzi, puntuale, due volte al giorno, all’andata e al ritorno dal lavoro, e che le rivela a quel modo un odio puro, gratuito, e pertanto incomprensibile, di fronte al quale la malcapitata non può che rinnovare costantemente la sua volontà di dominarsi, di porre un freno alla grande paura che la assale, e con cui fallisce ogni tentativo di amicizia o compromesso, tentativo che tradisce da parte sua il disperato bisogno di capire il perché di quell’odio, e il perché di quella umiliazione, che è anche il cozzare contro il no crudo della vita, un no che non si spiega e che non vuole spiegarsi.

I temi avanzati nei racconti (tre dei quali già proposti in un’edizione della Milanesiana dal titolo di Bugie e verità, a cui l’autore partecipò nel 2011) sono quelli più cari a Coetzee, presenti anche nei libri maggiori: l’utilità della bellezza e il suo valore nella vita; la ricerca del piacere e il suo infrangersi contro i principi morali; l’impossibilità del giudizio e l’insufficienza della ragione a stabilire un limite, un solco, tra ciò che è giusto e ciò che non lo è (Racconto); l’ipocrisia dei legami familiari, spesso velata di falso buonismo (Quando una donna invecchia); l’amore per gli animali, gli unici, si direbbe, ad aver conservato una purezza che noi esseri umani abbiamo perso (Mattatoio di vetro); il rapporto con il cibo e con il corpo (Vanità); e soprattutto il tempo, che passa e che mette al muro i personaggi, incapaci di accettare la loro condizione di vecchi e di malati, o meglio quella che loro stessi, nelle ultime pagine di Bugie chiamano la verità vera (la morte), quella idea o mostro orrendo che li perseguita e che in ogni modo cercano di eludere con le bugie del titolo, in una sorta di autoinganno consapevole che permette loro di sopravvivere meglio.

Se si potrebbe individuare, a lettura finita, nei personaggi femminili un tratto comune nella volontà di essere guardate e ascoltate (elemento distintivo di Racconto e di Vanità), cosa che coincide col fatto di essere ancora vive, anche sessualmente, e quindi presenti agli altri e a se stesse, e negli uomini quello di apparire invece sempre sordi e ottusi, preoccupati più di sistemare le cose che di capirle nel profondo, ogni vicenda narrata sembra comunque votata inevitabilmente a mettere in luce qualcosa che non torna, un corto circuito di tipo esistenziale (appare chiara la metafora del disco inceppato in Quando una donna invecchia, è Elizabeth Costello ad evocarla, o della barca che si perde, “una barca che si chiama vita“, nel medesimo racconto).

Di fronte a questo scacco contro cui si infrange la ricerca di senso dei personaggi del libro, vien da chiedersi allora se non sia intenzionale la scelta di Coetzee di non esaurire nella pagina il significato di ogni episodio, ma di limitarsi a suggerire, ad accennare un qualcosa, senza mai compiere il passo ulteriore, per affidare questo compito, per nulla facile, al lettore.

La presente recensione è apparsa su Lankenauta: letteratura e altri mondi

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