Sul racconto, un’intervista a Maurizio Vicedomini

  Che cos’è un racconto? Quali sono gli elementi che lo caratterizzano? Possiamo intenderlo, ad ogni modo, solo come un breve testo narrativo? E può essere la lunghezza l’unico aspetto che ci permette di stabilire la giusta differenza tra un racconto e un romanzo, tra un racconto lungo e un romanzo breve? Prendendo a prestito un celebre titolo, insomma, di cosa parliamo quando parliamo di racconti? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Vicedomini, scrittore, editor, direttore della rivista culturale Grado Zero, nonché autore di un recente saggio sull’argomento, Sul racconto (Les Flaneurs Edizioni, 2019), un contributo a nostro avviso lucido ed intelligente che mette in chiaro come nel mondo della critica e delle lettere, nonostante le tante definizioni teoriche avanzate sul campo da più direzioni, non si sia ancora pervenuti ad una definizione unanime, convincente, di questo oggetto misterioso.

Gentile Maurizio, è ormai d’uso comune, non solo nel mondo editoriale, definire un racconto come un breve testo narrativo, che può essere raccolto in volume assieme ad altri testi della stessa natura, o che può apparire in rivista con facilità, ma al di là di tutto ciò possono essere questi gli aspetti che ci aiutano a capire cos’è un racconto?

Dipende dal valore che assegniamo alla parola “racconto”. Una parola non è una legge della natura che abbiamo trovato già al nostro arrivo su questo mondo. Non è immutabile, non è una struttura a-priori. Una parola è una categoria di senso. È un suono a cui noi abbiamo dato un significato. La parola “racconto”, oggi, non ha una chiara definizione, e questo è il primo, grande problema.

Se vogliamo intendere il racconto come un testo breve – e quindi giocarcela sul piano quantitativo – va bene: ma allora ci dev’essere un limite ben definito, in termini di battute, parole, pagine, entro cui si parla di racconto e oltre il quale si parla d’altro (racconto lungo? Romanzo breve? Romanzo?). Questo limite, noi non l’abbiamo. C’è qualcosa nel mondo anglosassone, ma non è un tipo di definizione che da queste parti accettiamo.

E se anche la si volesse accettare, allora cadrebbero tutte le motivazioni che ci spingono a definire “racconto” una forma letteraria (o, talvolta, un genere). Una forma, per sua definizione, ha delle caratteristiche implicite che ne illustrano l’identità (ovvero: cos’è in sé e in cosa è diverso dagli altri).

La questione, come puoi vedere, è parecchio ingarbugliata.

Nel tuo saggio passi in rassegna alcune definizioni del racconto date nel passato, anche da studiosi autorevoli (fai riferimento a Ejchenbaum, alle intuizioni di Lukács, agli otto punti di Pratt), ma tutte puntualmente sembrano far cilecca quando vengono messe alla prova. Pare proprio che nessuna di queste abbia quei requisiti di universalità che farebbero pensare ad una definizione certa, corretta, che sia possibile accettare unanimemente…

Il problema delle definizioni, anche le migliori che ho avuto modo di affrontare nel libro, è che sono sempre ideate in chiave sincronica. Hanno senso, cioè, nel tempo in cui vengono formulate. Poi passano cinquanta, cent’anni, e le cose cambiano. Quei paletti fissati per cercare di dare una forma all’acqua vengono spostati, e così crolla tutto. I critici dell’ottocento potevano immaginare l’e-book (e, quindi, le diverse modalità di pubblicazione che ha portato per i racconti)? Lukács poteva immaginare il post-moderno? Se vogliamo lavorare sulla categoria di testi che chiamiamo racconti (e che chiameremo ancora, in futuro), dobbiamo provare a lavorare in chiave sincronica. Ma questo complica tutto: romanzo e racconto sono cambiati decine di volte nel corso dei secoli. Tantissime solo negli ultimi cinquant’anni. Mettere insieme tutto non è un gioco da ragazzi.

Dobbiamo allora ritenere, per usare una tua espressione, che si tratti davvero di “una definizione impossibile“? O c’è una definizione di racconto che potremmo prendere per buona o, meglio, qualcosa che potrebbe avvicinarsi, secondo te, a un’idea di definizione?

Alla fine del libro ne propongo una, che non avrebbe senso riproporre ora qui. Non per ragioni di spoiler (il bello di scrivere un saggio), ma perché è il risultato di una serie di presupposti e ragionamenti presentati nel libro. Da sola richiederebbe spazio per essere spiegata bene.

Comunque: una definizione granitica no, a mio avviso non ci sarà, poiché è il concetto che andiamo a definire che non è ben… definito.

A un certo punto del tuo saggio troviamo questa tua affermazione: “La critica della forma breve è sconfitta in partenza, poiché tenta di definire qualcosa che esiste in un campo diverso da quello in cui andiamo a cercarla“. Ti andrebbe di tornarci su brevemente?

Anche qui siamo nella fase conclusiva. Quella frase – e in concetti che vi sono intorno – nascono dalla consapevolezza che nel corso del tempo i critici hanno cercato di definire il racconto sempre attraverso un proprio metro. Quasi sempre narratologico, talvolta editoriale, talvolta ancora ricettivo. Ma, poniamo un punto: l’autore, prima di scrivere un racconto, non si chiede “cosa sia” o “entro quali limiti sia da considerare racconto”. Lo scrive e basta. Questo significa che il racconto, nella sua conformazione, nasce e muta in funzione della percezione puntuale che gli autori hanno di esso. Di volta in volta, di anno in anno, di secolo in secolo. Il racconto è allora una cosa mutevole, non possiamo andare a cercare una sua definizione senza tener conto di questo. Ma, anche qui, è difficile condensare il concetto in poche righe.

A ben vedere, sempre per quanto riguarda il racconto, neanche gli scrittori sembrano passarsela meglio quando si tratta di dare delle definizioni. Tu ci proponi i casi di Calvino, di Henry James, di un Hemingway poco propenso a farci spiare tra gli ingranaggi della sua macchina narrativa e di un Cortazar che ha tentato più volte di definire cosa stesse facendo, senza giungere però a un qualcosa di definitivo…

Infatti. È proprio questo il punto. Nel momento in cui il racconto non è definito, non è chiaro nella sua identità, ogni autore può intenderlo a modo suo. E questo vale per chi non dà affatto importanza alla questione (Pirandello o Hemingway, per esempio), come per chi tenta di teorizzare. James ragionava in termini editoriali invece: il testo era stato pubblicato in solitaria o in volume con altri?

Insomma, sono tutti lì a giocare lo stesso gioco, ma ognuno con le proprie regole. Alla fine, come si fa a dire chi ha vinto?

In ogni caso pare che un po’ tutti i tentativi di definizione del racconto fatti finora abbiano a che fare con quella altrettanto importante del romanzo, come se il primo, un ipotetico fratello minore, non possa che dipendere dal secondo, o prescindere da esso. Tu cosa ne pensi? A cosa è dovuta questa idea? Il racconto può essere considerato una forma a sé, autonoma, dal romanzo o non può prescindere da esso?

È necessariamente così. Racconto e romanzo sono i parenti più stretti che si possano trovare in critica letteraria. Questo è il primo motivo per il quale si tende a definire il racconto come qualcosa di breve (in contrapposizione al romanzo, che è qualcosa di lungo). Sono le forme letterarie più generiche, e pertanto sono perfettamente sovrapponibili. Nel cercare di fornire un’identità al racconto, la prima domanda da farsi è: questa caratteristica ce l’ha anche il romanzo? Se la risposta è positiva, allora non siamo ancora riusciti nel nostro intento.

Tu proponi nel tuo saggio anche un esempio di analisi del racconto. Hai approfondito la lettura del racconto Piccoli animali senza espressione (1988) di David Foster Wallace. Come mai proprio questa scelta?

Le motivazioni sono almeno due. La prima: il testo di Wallace è un esemplare magnifico di cosa significhi andare oltre ogni schema e definizione. Analizzarlo è stato un modo per rendere evidente come le categorie della critica devono diventare più elastiche per adattarsi a ciò che viene prodotto.

Il secondo motivo è strettamente personale. Lo considero uno dei più bei racconti mai scritti. Ho passato davvero tantissimo tempo a studiarlo, e tutta questa passione è confluita nel close reading finale.

Sempre in riferimento all’analisi del racconto di Wallace, molto circostanziata, quanto ritieni che sia importante non solo leggere ma saper leggere un racconto? Quanto è importante, cioè, che un lettore riesca a cogliere le spie testuali e gli elementi formali imprescindibili di un testo per poter evincerne il senso corretto, il messaggio completo?

Un testo ha molteplici livelli di lettura. È impossibile che non sia così. La massima soddisfazione per un autore è che il lettore sia riuscito a cogliere anche i più reconditi significati nascosti. Ma di solito questo accade solo poche volte. E d’altronde se ogni lettore sezionasse un racconto come io ho fatto con Piccoli animali senza espressione si perderebbe il piacere della lettura. Sono convinto che ogni lettore abbia un proprio livello di attenzione, in funzione di ciò che la lettura gli trasmette. Se cerca di rilassarsi, coglierà meno. Se cerca di imparare dai maestri, scoprirà di più. Ognuno ottiene ciò che cerca, e credo vada più che bene così.

Se possiamo chiederti anche qualcosa di più personale, com’è nata la tua passione per il racconto? Tu qui figuri in veste di critico e di autore di un saggio ma hai all’attivo anche alcune raccolte di racconti. Due anni fa hai pubblicato Ogni orizzonte della notte, puoi contare inoltre molte apparizioni su rivista… Quanto c’è nel tuo saggio del critico e quanto dello scrittore di racconti?

Sono convinto che il racconto rappresenti il nostro tempo come il romanzo ha rappresentato i due secoli passati. Lo vediamo tutti i giorni: la velocità, la frammentarietà dell’esperienza, l’intreccio di molteplici esperienze, il multitasking, il procedere in un ordine disordinato. Tutto questo è incarnato nel racconto molto più di quanto non sia nel romanzo. Incarnare quest’idea nel mio lavoro culturale e nella scrittura è stato – come dire: – naturale. Ogni orizzonte della notte rispecchia molto più quest’idea, chiaramente. Ma è la libertà che la narrativa si prende sempre sulla saggistica.

Prima di concludere, Maurizio, un’ultima domanda. È opinione comune che il racconto stia vivendo oggi tra i lettori e nel mondo editoriale un periodo di rinascita, di positiva rivalutazione, dopo aver pagato lo scotto di essere stato messo in ombra per anni da un parente più ingombrante, dal romanzo. Qual è la tua opinione in merito?

Sarò onesto: io stesso ero fautore di quest’idea. Ma, con il tempo, mi sono chiesto se non sia solo la prospettiva mutevole di chi – poi – si inserisce nel mondo editoriale, scopre le realtà indipendenti e i loro libri e si allontana sempre più dal mondo delle librerie di catena. Perché è sicuramente vero che i lettori forti leggono anche racconti. Ma il lettore da libreria di catena non compra forse soprattutto romanzi?

Insomma, temo che quest’idea non sia altro che la sorpresa di chi, addentrandosi nel mondo dell’editoria di qualità, scopre ciò che questa pubblica. Forse la situazione è immutata, solo che non lo sapevamo.

Comunque sia: se una rinascita è in atto, ne sono davvero contento. Il racconto è molte cose, ma di certo non un “lavoro preparativo” in vista di un romanzo. Merita dignità e rispetto. È – come ogni forma – un altro modo per dire le cose. Non migliore, non peggiore. Solo diverso.

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