#LoStatutoDelRacconto: l’intervista ad Andrea Brancolini

  Innanzitutto, Lei è collaboratore di lungo corso di Lankelot, un portale indipendente e amatoriale di arti e scienze, dove ha firmato tantissimi contributi, dai quali si capisce la sua passione sincera per i libri e per la letteratura.


Lei che è un lettore forte che idea ha del racconto, lo considera una forma letteraria di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto al romanzo?

A. Prima di tutto, grazie. È strano per me essere intervistato e non nego un po’ d’imbarazzo, ma mi fa piacere poter parlare della forma racconto, a mio avviso spesso fraintesa. Secondo me le diverse forme letterarie non differiscono per il loro valore, non c’è una condizione di subalternità di una rispetto alle altre, se se ne considera la qualità un ottimo racconto o raccolta di racconti vale un romanzo, un libro di poesie (mi fermo qui ma non dimentico la letteratura teatrale o la forma del fumetto, che negli ultimi tempi anche in premi letterari ha fatto la sua comparsa). Invece esiste una subalternità editoriale, commerciale, e qui sì che il romanzo la fa da monarca rispetto ai racconti e alla poesia. Tornando al valore letterario del racconto, mi vengono in mente alcune parole di William Faulkner in un’intervista del 1956 per The Paris Review. Ad un certo punto finisce con il parlare della ricerca della perfezione nel suo lavoro, dei suoi tentativi falliti e del suo continuare a provarci e poi fa un breve sunto della sua formazione: I’m a failed poet. Maybe every novelist wants to write poetry first, finds he can’t, and then tries the short story, which is the most demanding form after poetry. And, failing at that, only then does he take up novel writing.

Non so se le cose stiano come diceva qui Faulkner, ma mi sembra chiarisca almeno come scrivere un racconto non sia meno impegnativo di un romanzo.

Secondo Lei, la forma del racconto ci può aiutare a capire il presente, la nostra società? Perché?

A. In tutta onestà, non lo so. Sì, e no. Cerco di spiegarmi meglio. Se una persona tenta di comprendere il tempo in cui vive, la società di cui fa parte, ogni cosa può aiutarla nel suo intento: andare a fare la spesa osservando le altre persone, captare frasi in fila alle casse; prendere mezzi pubblici per spostarsi; guardare i luoghi che attraversa; leggere i giornali; fare zapping alla tv considerandone i programmi in modo critico, il modo in cui i presentatori e le presentatrici interagiscono con il pubblico, gli argomenti di cui parlano; andare alle poste e notare chi le frequenta; stare sui social network in modo consapevole e via così. Il racconto, come il romanzo, la poesia, come altre forme d’arte, può aiutare a capire il presente e la nostra società se anche noi contribuiamo. Si potrebbe obiettare che può essere proprio un racconto, o un romanzo, una poesia, a far nascere in noi l’interesse per certe questioni, a porci delle domande su ciò che accade intorno e nel nostro paese e fuori, ma questo può valere anche per un’esperienza non letteraria o legata all’arte, magari una notizia, un fatto accaduto a noi stessi o qualcuno cui teniamo; in ogni caso il nostro contributo è ineludibile, ci deve essere una frizione tra chi legge e ciò che legge, e chi fa la prima mossa è sì importante, ma non quanto il risultato.

Cos’è che la affascina nelle pagine di uno scrittore di racconti? Cos’è che le fa dire: sì, questo autore è davvero in gamba, questi racconti valgono?

A. In generale, e questo vale per romanzi, racconti, poesie e quant’altro, uno scrittore o una scrittrice mi colpiscono positivamente quando ciò che scrivono mi lancia altrove, quando le parole che leggo non si fermano sulla superficie dei miei occhi ma penetrano, continuano a lavorare dentro me oltre il tempo della lettura. Solitamente questo accade quando trovo nei racconti un certo grado di ossessività, nella scrittura, nei personaggi; quando c’è una tensione che va oltre lo scritto; quando noto che ciò che manca, quel che non è scritto, è altrettanto importante di quello che è sulla pagina. Per me è così: la lettura di un libro non riguarda solo i segni visibili ma anche quelli invisibili, la capacità di chi scrive di far intravedere altro, di aprire, o lasciare socchiuse, delle porte all’immaginazione.

Ci sono scrittori di racconti contemporanei e non (anche in Italia) che vuole menzionare per il loro valore e che ritiene un esempio di stile per le nuove generazioni?

A. Non so. Spero che le nuove generazioni siano molto curiose e leggano moltissimo, esplorando tanti stili diversi e alla fine riuscendone a trovare uno personale, che si adatti loro in modo perfetto. Considerando gli ultimi venti anni, pescando tra noti e meno noti e tentando una certa varietà, per quanto riguarda la letteratura straniera direi David Foster Wallace, Mariana Enriquez, Banana Yoshimoto, Bernard Quiriny. Per quel che riguarda il nostro paese, sempre con un occhio alla varietà, direi Giulio Mozzi, Luca Ricci, Paolo Cognetti, Carlo Sperduti, Paolo Zardi, Francesca Matteoni, Mariasole Ariot, Andrea Consonni, Massimiliano Nuzzolo, Francesco Dezio… Spero in ogni caso che questi possano essere magari una miccia per poi leggere anche autrici e autori “meno” contemporanei.

Ma è proprio vero che in Italia i libri di racconti in genere non si leggono? (Se sì, da cosa dipende, secondo Lei, questo fenomeno? Nota delle differenze tra il nostro Paese e altri che Lei conosce?)

A. Di sicuro i libri di racconti difficilmente entrano in classifica e anche i premi letterari mi sembra li considerino poco (a parte qualche eccezione, e abitando nei pressi di Pistoia ricordo il premio letterario internazionale Ceppo, che ad anni alterni premia un libro di poesie e uno di racconti). Proprio parlando di premi, il Ceppo nacque nel 1955 per “richiamare l’attenzione di critica e pubblico inizialmente sul genere letterario del racconto, a quel tempo poco praticato e caduto in disuso…”. Curioso che proprio negli anni ’50 lo Strega premiasse più raccolte di racconti (e romanzi brevi): Pavese, Moravia, Buzzati, Comisso, Bassani. Ma quest’ultimo, col tempo, ha guardato con sempre meno favore alla forma breve, tanto che l’ultima vittoria risale al 1997, i Microcosmi di Magris. Ma forse il racconto è una forma che ha vissuto sempre nella crisi (anche quando non sembrava). Oggi però sembra ai massimi livelli, a dispetto soprattutto di ciò che accade in rete, con il proliferare prima di blog e webzine, ora di social network che prediligono le forme brevi di comunicazione e narrazione, per cui il racconto sembrerebbe avere una strada agevole. Anche la nascita di siti come il vostro, Emergenza Scrittura, e riviste cartacee come Con.tempo che danno spazio esclusivamente al racconto, Cattedrale che si propone di essere un osservatorio su questa forma narrativa, tutto questo potrebbe far pensare ad una possibile, prossima, “esplosione”, ma è difficile dire. Dal punto di vista editoriale è certo che non sia così. Forse, allora, più del racconto è il libro di racconti a passare tempi difficili. Si è più disposti a leggere un racconto che un’intera raccolta, chissà. Forse perché le raccolte, le buone raccolte di racconti, hanno un’unità interna molto forte che però può essere più o meno visibile e che spetta a chi legge trovarla. Questa attività, il cercare e trovare legami tra storie più o meno distanti tra loro, mi sembra che sia poco appetitosa, mentre si è più disposti, ad esempio nel romanzo, a passare dall’unità a una serie di storie (perché un romanzo può avere tante storie al suo interno, senza tradire la sua essenza romanzesca, diciamo così). È come se ci piacessero molto i puntini ma non si fosse capaci, o non si provasse interesse nell’unirli con i trattini, e perdonate se faccio un esempio da Settimana enigmistica. Così capita di trovare libri di racconti che, con qualche furbizia narrativa (un personaggio ricorrente, magari il o la protagonista; un’ambientazione che preveda sempre lo stesso luogo, sia città o via o edificio, ad esempio), possano trasformarsi in romanzi, o almeno possano essere venduti come tali, tranquillizzando chi va a comprarli.

Da grande lettore appassionato di libri, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

A. Amare credo che sia una parola impegnativa e direi loro di interrogarsi serenamente su questo, se amino scrivere o amino qualcosa che sta intorno allo scrivere, perché credo sia facile confondersi al riguardo; a volte pensiamo qualcosa e andando avanti ci accorgiamo che è diversa da ciò che immaginavamo. Riguardo le indicazioni, che penso in realtà vadano bene anche per chi non scrive, credo di averne solo una, che ne comprende tante: direi di allenare la curiosità nei confronti di ciò che ci circonda, e nei confronti di noi stessi, perché qualche parte di noi magari non la conosciamo così bene come pensiamo. La curiosità letteraria, la curiosità geopolitica, la curiosità per flora e fauna, la curiosità scientifica e via così. Ciò che ci circonda è un mondo non letterario, che diviene tale quando incontra qualcuno in grado di renderlo su una pagina.

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura