#LoStatutoDelRacconto: l’intervista a Paolo Cognetti

  Innanzitutto, Lei ha cominciato a scrivere verso i diciotto anni, ha esordito nel 2004 all’interno dell’antologia La qualità dell’aria, e negli anni successivi ha pubblicato due raccolte di racconti (Manuale per ragazze di successo, 2004, e Una cosa piccola che sta per esplodere, 2007) e un romanzo (Sofia si veste sempre di nero, 2012), tutti usciti per minimum fax. Nel 2009 ha vinto il premio Lo Straniero, riconoscimento attribuito dalla rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi con la seguente motivazione: “Paolo Cognetti, milanese, è tra i giovani scrittori italiani (ha da poco superato i trent’anni) uno dei più attenti a sentire e narrare il disagio delle nuove generazioni e gli anni difficili dell’adolescenza di questi anni, di fronte a un contesto di incerta sostanza e di sicurezza precaria.”

A chi conosce i suoi libri la risposta può apparire scontata, ma Le faccio la domanda con la quale apriamo tutte le interviste della nostra indagine sul racconto: Lei considera il racconto come una forma di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto alla forma romanzo?

P. Come una forma autonoma di narrativa. Esistono scrittori che la considerano una forma minore, e sono proprio loro la rovina del racconto (perché ne scrivono di brutti, mentre dovrebbero evitare di perdere tempo e dedicarsi ai loro amati romanzi).

Da cosa è stato spinto nella sua scelta? Perché ha scelto la forma del racconto? Le va di raccontarci la sua evoluzione come scrittore e la sua scelta per la forma breve del narrare?

P. È un amore nato da lettore. Spero proprio che per tutti gli scrittori sia così, cioè che tutti noi scriviamo, o cerchiamo di scrivere, quello che abbiamo amato leggere. Per tanti anni non ho letto altro che racconti. Soprattutto americani. Cercavo la velocità ma anche la precisione, l’esattezza della lingua. La profondità che viene dal dire una cosa proprio con le parole giuste, le poche che servono, senza aggiungerne nemmeno una in più. Mi piaceva la libertà di sperimentare degli scrittori di racconti, che spesso azzardano punti di vista, strutture narrative e voci strane. Infine, probabilmente mi piacevano le storie piccole, che stanno bene in un racconto: non la vita di una persona ma una sua giornata, non un’intera storia d’amore ma soltanto, magari, la sera in cui finisce. Trovavo i frammenti delle storie più affascinanti che le storie intere.

Da dove trae spunto per i suoi racconti?

P. Dai ricordi. Dalle persone che ho conosciuto. E spesso dai racconti che ho amato.

C’è qualche campione della narrativa breve a cui si è ispirato e si ispira nel dare forma al suo stile?

P. Carver, Salinger, Hemingway, Grace Paley, Alice Munro. Se proprio bisogna avere dei modelli, meglio sceglierseli alti, no?

Ora vorrei curiosare nella stanza in cui scrive e chiederle: come nasce un racconto?

P. Nasce lentissimamente su un quaderno. Prima c’è la descrizione di un luogo. Poi prende forma un personaggio. Poi cerco di capire che cosa gli succede: il più delle volte è un incontro, l’invasione di quel luogo da parte di un estraneo. Poi, piano piano, provo a scoprire che cosa fanno questi due insieme. Non ho mai la trama in testa quando comincio, direi che la esploro mentre scrivo. Prendo un sacco di strade morte e vado continuamente in crisi e per questo ci metto cinque o sei mesi a scrivere un racconto.

Il racconto può aiutare a capire il presente?

P. Non è che io abbia tanto interesse per il presente. Ma tutta la letteratura che vale qualcosa ci aiuta a capire chi siamo, cosa succede nella nostra testa, perché ci comportiamo come ci comportiamo. Ora o cent’anni fa, per me non cambia molto.

Cosa può dire il racconto sulla recente storia d’Italia e sulla società italiana?

P. Può dire moltissime cose, ma tanto quanto il romanzo. Non penso che in quanto racconto sia più adatto a raccontare l’Italia e la sua storia.

Quali sono gli scrittori del nostro passato recente che Lei considera dei punti di riferimento per le nuove generazioni?

P. Io ho un’ammirazione e un affetto per gli scrittori che, in un modo o nell’altro, hanno fatto la Resistenza. Anche se non hanno imbracciato il fucile e sono stati partigiani nel dire il loro no, nel difendere delle idee, nel tradurre un libro. Pavese, Fenoglio, Primo Levi, Rigoni Stern: i primi che mi vengono in mente sono questi qui. Tra l’altro sono stati tutti dei bravi scrittori di racconti.

Ci sono scrittori di racconti attuali che vuole menzionare per il loro valore?

P. Luca Ricci, Christian Raimo, Valeria Parrella, Susanna Bissoli, Michele Mari.

Cosa ci dice sul fatto che i racconti non si leggono e non si vendono? Lei condivide questa affermazione?

P. Non è questione di condividerla o no, sono numeri incontestabili. Anche se io costituisco un’eccezione vivente, nel senso che le mie raccolte sono sempre andate abbastanza bene. Ecco, allora mi verrebbe da dire che uno scrittore di racconti si costruisce un’autorevolezza nel tempo: e agli occhi dei lettori l’ultima raccolta di Alice Munro ha un certo valore, quella estemporanea di un famoso romanziere ne ha molto meno. Come dicevo prima, il peggior nemico dei racconti sono i brutti racconti, i libri scritti con la mano sinistra, le antologie di testi sparsi di autori famosi, le operazioni editoriali in cui si provano a raccogliere nomi noti, rastrellare i loro cassetti e farci un libro. Queste sono esperienze di lettura deludenti, che allontanano i lettori. Ma a ben pochi lettori succede di imbattersi in Carver e non dire: oh cacchio, il racconto! Com’è che non ne ho mai letti prima? Ecco, se ci fossero in giro più Carver e meno fregature credo che i racconti venderebbero molto di più.

Da scrittore, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

P. Leggi moltissimo (sembra incredibile, ma ho conosciuto aspiranti scrittori che non leggono affatto). Trova i tuoi maestri e copiali. Non far leggere niente a nessuno fino a quando non hai una storia che ti sembra davvero bella. A quel punto, falla leggere alle persone giuste (cosa incredibile numero due: un sacco di gente che vuole pubblicare non sa chi siano gli editori, non si ricorda i loro nomi, non ha alcuna idea di chi potrebbe essere interessato a pubblicarlo, non legge i suoi coetanei, non legge altri autori di racconti, si affaccia al mondo editoriale mettendo il manoscritto in una busta e spedendolo a Mondadori. Che è come uno che vuole giocare a calcio e si siede fuori da San Siro ad aspettare che lo chiamino). Infine, non affezionarti alle tue cose. Ci sono anni di apprendistato, anche se magari li vedrai così soltanto dopo. Meglio buttare via tutto e scrivere cose nuove.

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura