#LoStatutoDelRacconto: l’intervista a Giulio Mozzi

  Innanzitutto, Lei si dedica da anni alle più varie attività letterarie: ha lavorato per la casa editrice Theoria, ha curato per alcuni anni la narrativa italiana per la casa editrice Sironi, è stato consulente di Einaudi Stile Libero, attualmente è consulente per la narrativa italiana di Marsilio Editori. In rete cura dal 2000 il blog Vibrisse. È riconosciuto e stimato, inoltre, come scrittore di racconti. Non a caso un suo racconto chiude il Meridiano Racconti italiani del Novecento curato da Enzo Siciliano.

Anche se la risposta può apparire scontata, Le chiedo: Lei che idea ha del racconto, lo considera una forma letteraria di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto al romanzo?

G. M. Le forme non hanno un valore di per sé. L’idea che il romanzo abbia più valore del racconto (o vicerversa), o che il sonetto abbia meno valore della canzone (o viceversa) appartengono a una cultura letteraria che non esiste più da alcuni secoli.

Secondo Lei, la forma del racconto ci può aiutare a capire il presente, la nostra società? Perché?

G. M. Sì. Esattamente come il romanzo o il teatro o la poesia lirica o il cinema o la musica eccetera.
Quanto al perché, ho due possibilità: o vi scrivo qualche luogo comune qui subito, oppure mi date due mesi di tempo e vi preparo una bibliografia. Perché sull’autonomia e sull’eteronomia dell’arte, sul rapporto tra arte e realtà, sul realismo e sulla finzione, sulla funzione sociale polticia pedagogica eccetera dell’arte – scorrono fiumi d’inchiostro.

Mi limiterei a dire: chiunque abbia avuta l’impressione di capire qualcosa del mondo grazie a un’esperienza di lettura, sa perché.

Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a volte a scrivere racconti? Da dove ha tratto spunto?

G. M. Ciascuno fa ciò che riesce a fare. Io scrivo racconti perché mi pare che mi vengano benino; non ho mai pubblicato un romanzo perché ho provato due volte a scriverne uno, e non ne sono stato capace.

Quanto allo spunto: in fondo, tutto è autobiografia (come diceva Beckett, che peraltro scriveva quello che scriveva).

C’è qualche campione della narrativa breve a cui si è ispirato nel dare forma al suo stile?

G. M. All’inizio sì, ma non è un campione, è semplicemente uno scrittore bravo e onesto: Marco Lodoli. Oggi direi che mi aiuta di più leggere la poesia del Cinque e del Seicento. Tanto che ormai scrivo delle robe che non sono nemmeno più racconti, non sono più nemmeno prosa, certamente non sono poesia: insomma, non so neanche cosa sono.

Da lettore e da consulente editoriale, cos’è che la affascina nelle pagine di uno scrittore di racconti? Cos’è che le fa dire: sì, questo autore è davvero in gamba, questi racconti valgono?

G. M. La bellezza e la forza dell’immaginario. Punto e basta. (Ovviamente la risposta vale anche per il romanzo eccetera).

Ci sono scrittori di racconti contemporanei e non (anche in Italia) che vuole menzionare per il loro valore e che ritiene un esempio di stile per le nuove generazioni?

G. M. “Esempio di stile per le nuove generazioni” mi pare una formula esagerata.
Ci sono degli scrittori di racconti bravi, nella mia generazione: Mauro Covacich, Rossella Milone, Paolo Cognetti, altri. In Italia, dico.

Ma è proprio vero che in Italia i libri di racconti in genere non si leggono/vendono? (Se sì, da cosa dipende, secondo Lei, questo fenomeno? Nota delle differenze tra il nostro Paese e altri che Lei conosce?)

G. M. I lettori italiani d’oggi preferiscono il romanzo. Il perché non lo so.
Per molto tempo l’Italia è stata un paese di novellieri: da Boccaccio fino a Pirandello, Palazzeschi, Buzzati, Calvino, Scerbanenco, e chi più ne ha più ne metta.

Da un certo punto in poi (a occhio: dalla fine degli anni Settanta) la narrativa breve ha perso credito. E, ripeto: il perché non lo so.

(Nella lettera alla quale allegava le domande, lei mi ha scritto: “Lo spirito che ci anima è quello di dare la giusta dignità letteraria a questa forma che in Italia ha sempre pagato lo scotto di essere ritenuta secondaria rispetto al romanzo”. Quel “sempre” è sbagliato. Almeno fino all’inizio del Novecento, in Italia, la forma breve è stata più importante del romanzo).

Da scrittore e curatore editoriale e da docente di scrittura creativa, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

G. M. Be’, ho da dire una cosa sola: che “amare lo scrivere” è cosa che non vale molto di per sé; l’importante è avere un immaginario e una certa capacità di dare forma
(Ah: ultimamente è diventato di moda presentarsi come “scrittori emergenti”. E’ una formula ridicola, che getta subito il discredito – nel mondo editoriale – su chi la adopera. Meglio quindi evitarla).

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura