#LoStatutoDelRacconto: l’intervista a Gianluca Morozzi

  Innanzitutto, tra le tante opere da Lei scritte e che abbiamo avuto modo di apprezzare figurano la raccolta di racconti Luglio, agosto, settembre nero con la quale ha esordito nella forma breve nel 2002Spargere il sale del 2011, anche questa una raccolta di racconti, Niente fiori per gli scrittori del 2013 e i recenti due racconti inseriti nella raccolta collettiva Diverso sarò io – racconti sulla diversità.

Da scrittore che è anche autore di romanzi, Lei considera il racconto come una forma di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto alla forma romanzo?

G. Tutt’altro: il racconto è la forma di scrittura perfetta. Non ha (o, quantomeno, non dovrebbe avere) punti deboli, al contrario del romanzo, che per forza di cose deve avere delle parti di raccordo, dei capitoli utili ma un po’ più deboli del resto. Il racconto ha di bello che non va esteso su lunghezze che non gli competono.

Da cosa è stato spinto nella sua scelta? Perché ha scelto la forma del racconto? Le va di raccontarci la Sua scelta per la forma breve del narrare?

G. Io ho cominciato a scrivere molto presto, intorno ai 13 anni, e gli unici sfoghi che avevo per le mie creazioni erano i concorsi per esordienti e le riviste letterarie. In entrambi i casi (a parte qualche concorso aperto ai romanzi) si richiedevano racconti brevi, con lunghezze stabilite e, spesso, argomenti obbligati. In pratica, fino alla fine degli anni Novanta, non ho fatto altro che scrivere racconti e mandarli ai concorsi e alle riviste. Risultato: ottanta concorsi letterari, ottanta concorsi persi. E cinque racconti pubblicati sulle riviste in dieci anni. Che dire? Non ho avuto grandi soddisfazioni, in quella fase, ma almeno ho imparato a scrivere narrativa breve.

Da dove trae spunto per i suoi racconti?

G. Un racconto può nascere da qualsiasi cosa, anche solo da una piccola e stupida idea. Non la devi portare avanti per 200 pagine, non devi svilupparla e farla crescere in tante direzioni.
Puoi notare, ad esempio, che sotto casa tua ci sono otto negozi, sette sono rimasti gli stessi o quasi negli ultimi venticinque anni, il bar è il bar, il barbiere è il barbiere, il tabaccaio è il tabaccaio, ma l’ottavo ha cambiato gestione e ragione sociale almeno venti volte, da panettiere a negozio di artigianato etnico, da assicurazione a Compro oro, di continuo. E allora ti viene in mente la storia di un negozio maledetto, che puoi portare avanti tranquillamente per almeno otto-dieci pagine…

C’è qualche campione della narrativa breve a cui si è ispirato e si ispira nel dare forma al suo stile?

G. Fredric Brown, per i finali a sorpresa. Isaac Asimov, per la logica scientifica applicata alla grande fantasia. Matteo Galiazzo, per il suo libro “Una particolare forma di anestesia chiamata morte”. Carver, ovviamente. Irvine Welsh, per “Acid House”. Tondelli, per “Altri libertini”.

Ora vorrei curiosare nella stanza in cui scrive e chiederLe: come nasce un racconto?

G. Se posso, una volta avuto lo spunto, cerco di scriverlo e correggerlo tutto in un giorno. La prendo come rivincita per i mesi persi su un romanzo: hai un’idea di mattina appena sveglio, la sera il racconto è pronto. A meno che non si tratti di un racconto lungo (tipo 30 cartelle), per il quale devi avere un minimo di trama… in questo caso ragiono come sui romanzi: devo avere l’inizio e la fine, e il resto nasce strada facendo.

Il racconto può aiutare a capire il presente?

G. Dipende dal racconto. Dai racconti di John Fante o di Bukowski ho capito molte cose su una certa America e su un certo periodo. E ho imparato molto da I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. O dai primi racconti di Philip Roth.

Cosa può dire il racconto sulla recente storia d’Italia e sulla società italiana?

G. Tante cose. Certi racconti dell’esordio di Aldo Nove raccontavano un’Italia totalmente rimbecillita dall’avvento brutale delle tv commerciali. Secondo me un racconto dedicato ai palinsesti pomeridiani racconterebbe l’Italia di oggi meglio di qualsiasi trattato.
Oppure si potrebbe scrivere un racconto solo raccogliendo i commenti agli articoli che compaiono in rete, o i video di YouTube, o le notizie-bufala. Sarebbe illuminante, e desolante. Oltre che sgrammaticato, e con delle acca usate a caso.

Quali sono gli scrittori del nostro passato recente che Lei considera dei punti di riferimento per le nuove generazioni?

G. Parliamo di italiani? Scerbanenco. Malerba. Tondelli. Matteo Galiazzo. Sto citando gente che ha smesso di scrivere, per scelta o per, ahimè, morte sopravvenuta.

Ci sono scrittori di racconti attuali che vuole menzionare per il loro valore?

G. Michele Mari. Marco Rossari. Valeria Parrella. Paolo Zardi. Tanti altri mi verranno in mente nel momento in cui spedirò questa intervista.

Cosa ci dice sul fatto che i racconti non si leggono e non si vendono? Lei condivide questa affermazione?

G. Allora: condividere l’affermazione è qualcosa di oggettivo, nel senso che gli editori italiani odiano i racconti e i lettori italiani li amano pochissimo. Questo è vero e oggettivo. Che io approvi questa idiosincrasia, be’, no: ovviamente non la approvo.

Da scrittore, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

G. Di prepararsi a sentirsi dire “Belli questi racconti, ma non è che puoi allungare il terzo fino a farne un romanzo?”. Ma di continuare a scriverne lo stesso.

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura