#LoStatutoDelRacconto: l’intervista a Gianfranco Franchi

  Innanzitutto, Lei si dedica da anni alle più varie attività letterarie: ha pubblicato tre libri di narrativa, dei saggi e un libro di versi, ha collaborato con diverse testate, ha diretto riviste letterarie, ha condotto programmi alla radio, ricoprendo di volta in volta il ruolo di autore, critico, scout, ecc. Ha scritto anche racconti.

Lei che è anche un autore, che idea ha del racconto, lo considera una forma letteraria di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto al romanzo?

G. Non vedo nessuna subalternità, nessuna inferiorità, nessuna distanza: piuttosto, da buon letterato italiano sono orgoglioso di pensare alla nostra tradizione trecentesca e quattrocentesca, alle novelle di Boccaccio e di Sacchetti, riconoscendo in esse la matrice dei più riusciti racconti ottocenteschi e novecenteschi. Tendenzialmente, il fuoriclasse si riconosce nella misura breve.

Secondo Lei, la forma del racconto ci può aiutare a capire il presente, la nostra società? Perché?

G. In questo senso, non c’è nessuna differenza tra le potenzialità di un racconto e quelle di un romanzo o di una poesia, o di un poemetto particolarmente ispirato, o di un reportage, o di un trattato filosofico. La letteratura restituisce in ogni caso il tempo e la società in cui è stata scritta con naturalezza – a volte, nell’incoscienza o nell’inconsapevolezza dell’autore.

Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a volte a scrivere racconti? Da dove ha tratto spunto?

G. Giovanissimo, adolescente e giù di lì, scrivevo soltanto poesia; invecchiando, nella misura del racconto ho potuto sperimentare, nel tempo, una scrittura che aveva un respiro simile, lavorando su una possibile “tenuta dal vivo” non troppo differente, nell’intento di mantenere per quanto possibile intatta un’idea di intensità e di potenza che avevo ben presente, e che mi sembrava coincidesse con l’ispirazione più autentica. Mi piaceva molto, poi, andare in controtendenza rispetto alla maggioranza assoluta degli scrittori della mia generazione, non di rado incresciosamente e presuntuosamente uncinati al romanzo, peggio ancora al romanzo di genere, e ostili alla forma breve.

C’è qualche campione della narrativa breve a cui si è ispirato nel dare forma al suo stile?

G. Dagli anni del Liceo e dell’Università mi sono trascinato dietro parecchie suggestioni boccaccesche, verghiane e pirandelliane. Non mi so liberare dalla sensazione che si sia trattato, per differenti ragioni, di una sorta di colorato, complesso e caratteristico condizionamento. Dalla mia inesausta attività di ricerca e di lettura successiva, ho probabilmente imparato più da maestri mezzi dimenticati del Novecento come Guido Miglia (“Bozzetti istriani”) e Giani Stuparich (il racconto “La grotta” è forse il suo massimo risultato), o da certi micidiali risultati di Ennio Flaiano, che dai reclamizzati e spesso fiacchi americani.

Cos’è che la affascina nelle pagine di uno scrittore di racconti? Cos’è che le fa dire: sì, questo autore è davvero in gamba, questi racconti valgono?

G. Una combinazione di elementi: l’intensità, la rappresentazione fedele del territorio, il tempo e la tenuta dei dialoghi, la potenza dell’incipit, l’estraneità alle didascalie, la crudezza. La scrittura.

Ci sono scrittori di racconti contemporanei e non (anche in Italia) che vuole menzionare per il loro valore e che ritiene un esempio di stile per le nuove generazioni?

G. Naturalmente. Tra i contemporanei viventi, vanno segnalati almeno il romano Fernando Acitelli, per “Miagola Jane Birkin”; l’eterno outsider padovano Paolo Zardi, per “Antropometria” e “Il giorno che diventammo umani”, pubblicati dalla Neo Edizioni, casa editrice molto sensibile ai racconti; l’aretino Paolo Mascheri, per l’ormai introvabile “Poliuretano”; il bizzarro Emanuele Kraushaar, che sostanzialmente sta coniando un suo subgenere, già a partire da “Tic”. A latere, il romanziere Tommaso Giagni, scuderia Einaudi, sta pubblicando bei racconti qua e là, tra la prestigiosa rivista “Granta” e la rivista pallonara “Ultimo uomo”, dove sta scrivendo storie di calciatori da par suo. Ha il passo adatto, ha una bella scrittura.

Ma è proprio vero che in Italia i libri di racconti in genere non si leggono/vendono? (Se sì, da cosa dipende, secondo Lei, questo fenomeno? Nota delle differenze tra il nostro Paese e altri che Lei conosce?)

G. Il nostro mercato editoriale è intossicato da libri di derivazione o fortuna televisiva, per lo più illeggibili o indegni, e dalla fortuna sconsiderata e pallosissima dei commissari e degli assassini, della gastronomia posticcia e del rosa, più o meno involuto e mascherato, etero o gaio. A giudicare dalle classifiche di vendita, viviamo in un Paese penalizzato da un clamoroso cattivo gusto, da un certo analfabetismo di ritorno e da una pigrizia mentale esasperante. Devo dire però che l’esperienza, gli studi e il buonsenso mi portano ormai molto lontano dal perdere tempo, a questo punto, con le classifiche dei “più venduti”, se non per distrarmi dopo ore di ufficio o di scartoffie. Paradossalmente, se il prossimo giudice scaciato o fuori asse di “X Factor” pubblicasse una raccolta di racconti, potresti trovarla nella top ten: non significherebbe niente. Non cambierebbe le cose. Purtroppo il nostro mercato editoriale non rappresenta granché, non è certamente rappresentativo del valore o della tenuta di un libro. Io penso piuttosto che dovresti, dovremmo, prendere in considerazione quanti, tra le poche migliaia di lettori forti, e le poche centinaia di “lettori fondamentali”, leggono raccolte di racconti: il risultato della tua, della vostra indagine sarebbe ben diverso, diversamente rappresentativo, costruttivo, degno di meditazione. Intervistate i nostri massimi critici letterari, Cortellessa, Mazzarella, Magris, Emanuele Trevi, per dire giusto i primi, e domandate loro quanti e quali autori di racconti leggono. Certamente saranno notizie edificanti e fertili di approfondimento…

Infine sui limiti della nostra editoria, e del nostro mercato, non dimenticherei il più classico: la nostra lingua non è parlata, nel mondo occidentale, come quella inglese e quella spagnola. Quelle lingue sono parlate e comprese anche da un miliardo di persone, forse oltre. La nostra si limita, direi, a sessanta milioni di persone. Una raccolta di racconti o un romanzo inglese o spagnolo nasce con potenzialità incalcolabili per la nostra letteratura e la nostra editoria. Nasce già internazionale e nasce comoda. Parecchio.

Cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

G. Si appartiene alla letteratura graniticamente, totalmente. Non si gioca e non si bara. Chi gioca e chi bara si squaglia, si defila o si annoia presto. È un’arte povera che pretende appartenenza assoluta, e dedizione. Non aspettatevi fortuna e non pensate al denaro. Leggete letteratura e poi scrivete, quando vi sentite sazi, estenuati o esausti. Scrivete come se non ci fosse domani. In effetti, il domani non esiste. Scrivete come se avesse senso. L’editoria è un gioco di ruolo e il pubblico probabilmente non è quello che pensate. Anzi, forse non c’è proprio.

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura