Le rovinose, un’intervista a Concetta D’Angeli

  Ho avuto il piacere di porre qualche domanda a Concetta D’Angeli, autrice de Le rovinose (Il ramo e la foglia edizioni), un romanzo che nel ripercorrere gli episodi dell’amicizia turbolenta tra Silvana e Clara ci conduce a piè pari nell’Italia degli anni di piombo, in un periodo storico segnato dalla violenza del terrorismo ma anche da cambiamenti epocali, da conquiste significative in ambito giuridico e civile che hanno permesso alle donne di affrancarsi sempre più da una società patriarcale e maschilista.

Gentile Prof.ssa D’Angeli, come è nato il romanzo “Le rovinose”? È un romanzo autobiografico, è frutto di invenzione, o entrambe le cose?

Sebbene il romanzo riguardi tempi e circostanze appartenenti alla mia generazione, sebbene sia inevitabile che chi scrive attinga, almeno in parte, alla propria vita, tuttavia Le rovinose non è un romanzo autobiografico in senso stretto. Per usare una formula sintetica: la mia narrazione è esperienza intrecciata con l’invenzione, trasformata dall’invenzione.

Il racconto dell’amicizia tra Silvana e Clara è l’occasione per ricordare e ripercorrere degli avvenimenti significativi della nostra storia recente, accaduti in anni poco frequentati dalla letteratura italiana. Sono gli anni dell’emancipazione femminile, del sequestro Moro, della riforma del diritto di famiglia… Come mai ha scelto di scrivere proprio di quel periodo, di ambientare il suo romanzo nei cosiddetti anni di piombo?

Per la ragione che lei ha appena detto: quegli anni, sebbene tremendi, contraddittori, importanti nella nostra storia del secondo dopoguerra, sono poco presenti nei ricordi individuali e collettivi, nelle riflessioni e nelle ricostruzioni storiche, nelle narrazioni letterarie – o almeno non sono presenti quanto la loro rilevanza richiederebbe.

Alle vicende storiche che fanno da sfondo si alternano quelle private: Silvana, la protagonista, è una figura esemplare della condizione femminile di quegli anni, che incarna il desiderio delle donne di emanciparsi, di affermarsi in ambito lavorativo, di uscire da una condizione sociale che le vedeva quasi esclusivamente relegate all’ambito domestico, inevitabilmente sottomesse all’arbitrio del padre e del marito… Quali sono stati, secondo lei, gli avvenimenti di quel quindicennio che più hanno inciso, in senso positivo, sulla vita delle donne in Italia?

Negli anni Settanta sono state approvate leggi che hanno davvero posto le basi per cambiare i rapporti di forza in una società pesantemente patriarcale e maschilista com’era quella italiana: nel 1970 fu approvato il divorzio; nel 1971 fu abrogato il divieto di propagandare e usare i contraccettivi, conquista fondamentale perché anche alle donne fosse permesso di separare il sesso dalla riproduzione; nel 1975 venne riformato il diritto di famiglia che, oltre a riconoscere la parità di genere nel matrimonio, cancellò il delitto d’onore; nel 1978 fu legalizzato l’aborto.

Una straordinaria acquisizione di diritti, in precedenza negati, che permise alle donne di diventare cittadine a tutti gli effetti e si riverberò in tantissimi aspetti della loro quotidianità: nel modo di pensare, nei comportamenti, perfino nell’abbigliamento, e soprattutto nell’adozione di modelli di vita e di cultura inediti o semisconosciuti (molto fece in questa direzione anche la casa editrice La Tartaruga che, fondata nel 1975 da Laura Lepetit, pubblicava solo scritti di donne). Fu di fatto una rifondazione dell’identità femminile, un salto fino ad allora inimmaginabile che si ramificò in quasi tutta la penisola. Per molti versi fu entusiasmante.

Le donne fanno di tutto per emanciparsi e lei va in cerca d’un proprietario, nemmeno fosse una vacca alla fiera di paese!” pensa a un certo punto Silvana di Clara. Più avanti dice invece di sé: “A denti stretti, con tutte le forze mi obbligavo a studiare per finire gli esami, completare la tesi, agguantare quel pezzo di carta che m’avrebbe permesso… boh, non lo sapevo nemmeno io, mi dicevo: la liberazione!

Leggiamo di due donne molto diverse tra loro, per non dire antitetiche. Come mai questa scelta? È stato un qualcosa di intenzionale o i due personaggi, il loro aspetto, il loro carattere, si sono precisati in questa forma solo nel corso della redazione del romanzo?

Quando scrivo narrativa, diversamente da quando scrivo saggistica, io non ho idee definite né mi propongo tesi da dimostrare, so solo approssimativamente quello che vorrei rappresentare; nel caso delle identità femminili in trasformazione negli anni Settanta e Ottanta in Italia, volevo descrivere, insieme alle conquiste pratiche, culturali, legali, insieme alle nuove possibilità che si aprivano alle donne, anche gli aspetti in ombra, le contraddizioni che accompagnarono quelle conquiste, lo smarrimento che provocarono in moltissime ragazze: le donne italiane non avevano alle spalle una storia di libertà, acquisirla così di colpo entusiasmò, certo, ma anche disorientò, spaventò, illuse forse…

Mi restava da trovare un nome per quell’amore lì, quell’attrazione che non ci dev’essere.

È utile ricordare che la crescita di Silvana non è solo professionale. Nella relazione con Clara e nelle successive vicende da lei vissute a Milano ha la possibilità di conoscersi meglio, di dare un nome a ciò che non conosce e che inizialmente fatica ad accettare…

Silvana scopre la propria omosessualità. O meglio ancora: scopre il diritto di dichiararla apertamente. Anche a questo proposito i Settanta furono ricchi di esperienze nuove e di conquiste finallora impensabili; nel 1971 a Torino venne fondato il F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), nell’aprile dello stesso anno a Sanremo avvenne la prima manifestazione pubblica gay (nel caso specifico contro il Congresso internazionale sulle devianze sessuali, che si proponeva di “curare” e “recuperare alla normalità” gli omosessuali), nell’ottobre del ’72 venne tenuto a Milano il primo congresso internazionale omosessuale, nel 1977 fu pubblicato Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli, un saggio precorritore del pensiero LGBTQ odierno, nel novembre 1979 il Collettivo Orfeo organizzò a Pisa il primo corteo del movimento omosessuale italiano.

In Silvana ho voluto rappresentare il difficile percorso di una ragazza che, del tutto priva di modelli di riferimento, scopre in sé pulsioni talmente interdette e represse che all’inizio non le riconosce nemmeno; e poi quant’è faticosa la strada per renderle accettabili – a se stessa prima che a chiunque altro!

Perché questo era il mondo in cui allora vivevamo, pensa Silvana con gli occhi incollati al bigliettino, un mondo tenebroso dentro e fuori di noi, dominato da passioni che non sapevamo decifrare e c’incalzavano; e noi così inconsapevoli, così giovani, così desiderosi di acciuffare uno, almeno uno dei sogni con cui la vita, ancora vergine, ci abbagliava… Come può essere terribile la giovinezza!

Leggendo di come Silvana si ponga in gioventù nei confronti del mondo che la circonda, di come sia intenzionata a capire gli eventi per poter cambiare la propria condizione sociale, di come sia consapevole che la vita dei singoli è sempre, inevitabilmente, connessa con i fatti storici, viene spontaneo pensare ai giovani di oggi. Qual è l’idea che lei ha di loro? Li ritiene interessati, attenti, disposti a mettersi in gioco come lo erano i loro coetanei quaranta anni fa?

Non posso risponderle basandomi su un’esperienza di prima mano, come succedeva fino a dieci anni fa, quando insegnavo all’università e avevo un rapporto continuo con i/le ventenni che la frequentavano; tuttavia, parlando in termini generali e quindi generici, direi che le diversità positive dei ragazzi di oggi siano minore provincialismo e minori pregiudizi verso le minoranze e verso le alterità; e quelle negative siano minore coraggio, minore curiosità e un forte, diffuso – e per me deprimente – conformismo.

A un certo punto della narrazione lei introduce nel romanzo una parentesi metanarrativa. Qual è l’esigenza che l’ha spinta a ricorrere a questo espediente? Vi è un motivo esclusivamente diegetico-narrativo o è il frutto di una riflessione teorica sulla forma romanzo? Ricordiamo che al narratore della Prima parte si aggiungono successivamente le lettere e le pagine di diario di Clara nella Seconda e Terza parte, che rendono leggibili gli avvenimenti da un ulteriore punto di vista.

La ringrazio di questa domanda perché mi permette di spendere due parole su un aspetto, quello della struttura, che ritengo essenziale perfino quando le opere narrative assumono la destrutturazione a propria norma. Nella fase costruttiva del romanzo l’autore deve risolvere il rapporto con il tempo, una convenzione, certo, nella vita reale e in quella fittizia, ma una convenzione obbligatoria e condizionante in tutti e due i casi. E deve affrontare la questione storica e culturale dei generi letterari sebbene, di essi, il romanzo sia il più libero e consenta pastiches che possono rivelarsi produttivi, in alcuni casi risolutivi, talvolta divertenti per il lettore.

Ne Le rovinose io adotto sia il racconto frontale e cronologicamente lineare dove si alternano la prima e la terza persona, sia il romanzo epistolare, sia la narrazione diaristica. Però non m’è sembrato possibile raccontare uno snodo della storia ricorrendo a una di queste tre opzioni, sicché in un capitolo ho rotto il patto fondativo delle regole romanzesche e sono intervenuta in quanto autrice, in forma metanarrativa. È forse una mia resa, ma anche un ammicco scherzoso all’imperio delle leggi del racconto.

Abbiamo cominciato a ricorrere alla violenza per rispondere a un sistema che non si faceva scrupolo di usarla, ci dicevamo che non era più il tempo della dialettica, violenza chiama violenza; e ai lacrimogeni, ai manganelli, alle armi – perché i nemici le avevano, le armi, eccome se le avevano, ed erano pronti a usarle – abbiamo risposto coi sassi. Non bastava, il differenziale bellico era troppo sproporzionato; così, anche fra noi le armi sono comparse.

Il tema della violenza è uno dei temi principali del libro. La scelta di Lorenzo, giovane nobile che abbraccia la causa proletaria, ricalca a suo modo la scelta compiuta da tanti giovani che in quegli anni scelsero la strada sbagliata, la militanza armata. Alla fine del romanzo, a tal riguardo, lei ha voluto riportare anche un elenco, una cronologia dei caduti di quegli anni (vittime del terrorismo e della mafia), che è parte integrante della narrazione. Perché questa scelta narrativa?

Quando ho fatto delle ricerche storiche per mettere a fuoco quello che era avvenuto negli “anni di piombo” sono rimasta impressionata dalla pericolosità e dalla quantità dei fatti violenti; non me li ricordavo abbastanza oppure non ne avevo registrato la gravità, sebbene allora fossi una giovane donna, una testimone. Perciò ho voluto che restassero all’interno del romanzo, che acquisissero anzi un rilievo particolare e ho scelto di metterli in fila, dal 1976 al 1988 (l’arco temporale in cui si svolge il mio racconto), anno per anno, mese per mese, giorno per giorno: solo i morti ammazzati in attentati e agguati terroristici o mafiosi. Ne risulta una sequela agghiacciante, che mi pare più significativa di qualunque discorso, più illuminante di ogni interpretazione.

Il romanzo affronta anche il tema della violenza domestica, che nel caso di Clara affonda le proprie radici in un vissuto difficile, duro da accettare e da superare…

La violenza domestica mi appare come un universo coatto dal quale è difficilissimo, in molti casi impossibile uscire, per ragioni in parte pratiche e in parte interiori, perché l’esperienza della forza s’insedia negli strati profondi della psiche e ne fa una prigione spesso inespugnabile; è così che, contro la ragionevole speranza che la violenza sperimentata produca il desiderio di sfuggirla, le statistiche asseriscono l’opposto: nella maggioranza dei casi le vittime tendono a ripeterla, addirittura a ricercarla. Penso che in tale ostinata persistenza ci sia, oltre all’adattamento, la convinzione che non esistano altre possibilità relazionali – o peggio ancora: che la trasmissione dei sentimenti, di tutti i sentimenti, quelli positivi e quelli negativi, avvenga solo attraverso la brutalità, al di fuori della quale non sembra esserci altro che freddezza emotiva, solitudine affettiva. Quand’ero bambina sentivo spesso ripetere dalle donne adulte che le botte del marito sono forme d’amore; temo che simili complicità e condivisioni delle ragioni degli aggressori, per quanto meno esplicitate, siano tuttora diffusissime. Credo che parecchi femminicidi, poi, si possano spiegare solo così.

Cosa rimane di quegli anni, secondo lei, nella memoria collettiva del nostro Paese? Siamo riusciti in qualche modo a metabolizzare, a fare i conti con quel periodo o è stato semplicemente rimosso?

Sono convinta che un’analisi approfondita non sia stata fatta in modo adeguato: in parte per malafede, perché la responsabilità dei delitti e delle colpe va ascritta a tutte le forze politiche allora attive, e anche a parecchi organi di stato (questi ultimi spesso collusi con la malavita organizzata); in parte per quel non voler sapere né vedere, per quell’attitudine psichica che Freud chiama appunto rimozione: la mente umana trova più semplice dimenticare i grandi traumi – e questo succede sia alle singole persone sia alle società. Oltretutto noi latini siamo lenti nell’elaborazione storica, pensi a quel che è successo in Italia col fascismo, quanto siano rimasti attivi e suggestivi fra noi i fantasmi autoritari, magari riciclati, come se una dittatura rovinosa, che comportò la distruzione del nostro paese, non fosse mai stata sperimentata…

Quindi sì, penso che sia necessario ritornare agli anni di piombo e indagarli in varie sedi; la narrativa è una di esse.

Intervista apparsa su Lankenauta.