#LoStatutoDelRacconto: l’intervista a Tommaso Giagni

  Innanzitutto, Lei ha pubblicato nel 2012 il suo primo romanzo L’estraneo (Einaudi) e ha partecipato con i suoi racconti a varie antologie, tra cui: Roma capoccia (DeriveApprodi 2005), Voi siete qui (minimum fax 2007), Il lavoro e i giorni (Ediesse 2008), Ogni maledetta domenica (minimum fax 2010).

Le faccio la domanda con la quale apriamo tutte le interviste della nostra indagine sul racconto: Lei considera il racconto come una forma di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto alla forma romanzo?

Semplicemente qualcosa di diverso. Altre regole, altri limiti e altre opportunità – sia per chi scrive, sia per chi legge. Naturalmente, qualcosa che ha anche grandi punti di contatto con la forma romanzesca.

Da cosa è stato spinto nella sua scelta? Perché ha scelto la forma del racconto? Le va di raccontarci la sua evoluzione come scrittore e la sua scelta per la forma breve del narrare?

T. Le prime cose che ho scritto erano racconti. Mi rassicurava muovermi in un perimetro circoscritto, all’interno di un numero contenuto di pagine. Il racconto mi aiutava anche a mantenere le unità di tempo, luogo e azione, alle quali mi appoggiavo un po’ come fai con la guida mentre sei incerto a salire le scale. E anche le prime cose che ho pubblicato, sono stati racconti.
A un certo punto ho deciso di affrontare una forma più lunga. Volevo capire se ero in grado, intanto. Poi vedevo l’irrigidimento degli editori di fronte alle raccolte di racconti.

Da dove trae spunto per i suoi racconti?

T. Da quello che entra nella mia vita, banalmente. Gli incontri che faccio, i posti che vedo, eccetera. Come succede per qualunque narrazione.

C’è qualche campione della narrativa breve a cui si è ispirato e si ispira nel dare forma al suo stile?

T. Quando ho cominciato, avevo dei libri in qualche modo di riferimento. Per esempio Ultimo viene il corvo di Calvino, o Cattedrale di Carver. A me non piace il concetto di “ispirazione” ma, ecco, gli strumenti te li prendi in officine di diverso tipo. Quello che ti aiuta a scrivere prescinde dal linguaggio di destinazione: puoi usare in un romanzo una tecnica che hai visto in un film, puoi usare in un racconto una prospettiva che hai intuito a teatro.

Ora vorrei curiosare nella stanza in cui scrive e chiederle: come nasce un racconto?

T. Più o meno il processo, per me, è questo: nella mia quotidianità raccolgo una serie di elementi che hanno un potenziale narrativo; ne scarto alcuni, ne tengo altri; su questi, ragiono fino a elaborare un tessuto intorno; una serie di elaborazioni così, messe insieme, danno forma a un racconto.

Il racconto può aiutare a capire il presente?

T. (Rispondo come se si parlasse di narrativa in toto) Di per sé, no. Bisogna avere degli strumenti, prima. Ma può aiutare a guardare le cose da un punto di vista diverso, obliquo. Può aiutare a confermare le proprie opinioni, o a consolare, ma credo sia più interessante quando rovescia, quando colpisce, anche a costo di essere brutale.

Quali sono gli scrittori del nostro passato recente che Lei considera dei punti di riferimento per le nuove generazioni?

T. Per le nuove generazioni, non saprei. Per me personalmente, di italiani contemporanei, direi Walter Siti e Michele Mari.

Ci sono scrittori di racconti attuali che vuole menzionare per il loro valore?

T. Voglio dire di un paio di ottime raccolte che ho letto recentemente. Quello che hai amato (Utet, 2015), un’antologia di sole donne, dove l’età anagrafica è bassa e il livello medio dei racconti è parecchio alto. I racconti straordinari, per profondità e atmosfera, di Viaggiatore in terra di Julien Green (Nutrimenti, 2015).

Cosa ci dice sul fatto che i racconti non si leggono e non si vendono? Lei condivide questa affermazione?

T. È un dogma, più che un’affermazione condivisibile o meno. Gli editori dicono che i racconti non si vendono, gli editor rifiutano le proposte, gli scrittori devono pubblicare se vogliono fare questo lavoro, e quindi finisce che i racconti li fanno solo gli autori abbastanza forti da poterseli permettere.

Da scrittore, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

T. Gli direi di usare quella forma come un laboratorio, dove imparare delle tecniche. Il vantaggio è che non deve controllare un numero sterminato di pagine e personaggi e dinamiche. Lo svantaggio è che per funzionare dev’essere un meccanismo perfetto di coerenza e ritmo, e quindi è tutto un lavoro d’equilibrio e sottrazione.


Gli direi anche di farsi poche illusioni sulla possibilità di essere pubblicato da case editrici che hanno una certa dimensione. E di ragionare sulla forma romanzo, quindi, ma senza complessi d’inferiorità.

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura