#LoStatutoDelRacconto: l’intervista a Gianfranco Calligarich

  Lei è scrittore, drammaturgo, regista, sceneggiatore di film e di molti tra i più famosi sceneggiati della Rai, nonché fondatore a Roma de Il Teatro XX Secolo. Ha vinto premi prestigiosi: con il testo Grandi Balene il Premio dell’Istituto del Dramma Italiano, con L’ultima estate in città, suo primo romanzo presentato da Cesare Garboli e Natalia Ginzburg, il Premio Inedito; con Privati abissi ha vinto il Premio Bagutta 2012. Con Garzanti, però, ha anche pubblicato nel 2002 il volume di racconti Posta Prioritaria, riproposto recentemente in una nuova edizione con sette storie inedite, una commedia umana fatta di gelosie, amori, ambizioni, affetti, un romanzo corale, come è stato definito, al tempo esilarante e commovente, che lascia sconcertati.

Le faccio la domanda con la quale apriamo tutte le interviste della nostra indagine sul racconto: da scrittore che è anche autore di romanzi, Lei considera il racconto come una forma di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto alla forma romanzo?

G. Mah, parlando di luce, potremmo dire che se un romanzo potrebbe essere un più o meno elaborato lampadario  con cui un autore cerca di illuminare una porzione di vita o di mondo, il racconto può essere una folgore. È la sua brevità a fare più luce su qualcosa di quanto possa farne il più sontuoso e ricco di cristalli lampadario penzolando da un soffitto. Oppure, parlando di suoni, i tre minuti di una canzone inchiodarsi nel cuore e farci compagnia nella vita più di una sinfonia di oltre un’ora. Spesso, infatti, la forza di qualcosa nasce proprio dai suoi limiti di tempo o di spazio che invece di soffocarla la fanno esplodere. Un esempio, parlando di musica, sono i capolavori di jazz e di certe canzoni che non potevano durare più dei tre minuti dei primi dischi. Credo ciecamente nella forza dei limiti. I racconti più belli della letteratura italiana del Novecento sono quelli del Sillabario di Parise che dovevano stare dentro le due colonne della terza pagina del Corriere della Sera. È dai limiti e non dalla libertà di tempo e spazio, che possono nascere le cose migliori di un musicista o di uno scrittore. Limiti che, se non imposti da frangenti esterni, uno scrittore si impone da solo sapendo che l’emozione che intende trasmettere potrebbe essere compromessa da una frase o anche, nel caso di quelli particolarmente rigorosi, di una sola parola o addirittura una virgola. Nei racconti nessuna pallottola può arrivare a colpire il lettore con più micidiale forza di un punto messo al posto giusto ha detto qualcuno. Un esempio è il racconto Il Grande Fiume dei Due Cuori di Hemingway, dove la preventiva nostalgia della vita, che è l’emozione che alimenta la sua letteratura è forte come in nessuno dei suoi grandi romanzi se si eccettuano, forse, Fiesta e Il Vecchio e il Mare che è un racconto lungo. No, letterariamente nessuna subalternità dei racconti, rispetto ai romanzi. I racconti sono solo più difficili da scrivere, tutto lì. E poi lui aveva anche la fortuna di essere pagato per scriverli.

Da cosa è stato spinto nella sua scelta? Perché ha scelto a volte la forma del racconto? Le va di raccontarci la sua scelta per la forma breve del narrare?

G. Ho cominciato a scrivere racconti a circa quattordici anni. A quell’età troppe folgorazioni per il fatto di essere al mondo, per perdere tempo a scrivere storie lunghe.

Da dove trae spunto per i suoi racconti?

G. Da dove traggo spunto per tutto quello che scrivo se non sono sceneggiature. Per quanto anche in quelle appena posso mi rifaccio a gente che ho conosciuto o a fatti che mi sono capitati. Se no uno cosa scrive a fare, per soldi? E’ una ragione più che buona, visto che anch’io come tutti ho il  vizio di mangiare. Ma la realtà e che non sono mai riuscito a diventare un professionista. Riesco a scrivere solo quello che mi piace, o che riesco a farmi piacere. Altrimenti non riesco a battere un tasto.

Come nasce un racconto?

G. Nel nostro Paese c’è piuttosto da chiedersi perché un racconto dovrebbe nascere, visto che nessuno li pubblica. Un racconto nasce perché a un certo punto senti una storia o conosci qualcuno che senti che non puoi lasciare che scompaia come se tu non avessi sentito quel qualcosa o conosciuto quel qualcuno. Poi ci può essere un fatto casuale come per Posta Prioritaria arrivato in un periodo in cui, alle prese da anni con un romanzo che non voleva nascere, pensavo che dopo l’Ultima Estate in Città non sarei riuscito a scriverne altri. Era stato a quel punto che l’impassibile dio che veglia sugli scrittori alla ricerca del modo giusto per raccontare le storie che gli si sono accumulate dentro vivendo e ai quali di tanto in tanto lui si diverte a fare insperabili regali fornendogli la chiave giusta per aprire il loro tetro bottino, aveva pensato di fare un regalo anche a me. Facendomi ricevere la lettera di una amica a cui anch’io avevo risposto per lettera. Ed era stato rileggendo le due lettere una dopo l’altra che mi ero reso conto che, insieme, costituivano una storia. Non solo, ma anche, non intralciata da dialoghi e descrizioni, a risultare rapida, efficace e coinvolgente.

Il giorno dopo, nel giro di un paio d’ore, ne avevo scritto un’ altra storia  che, attraverso varie lettere, raccontava  di una vecchia attrice, altra mia amica,  che viveva sola in una villa davanti al mare in attesa dell’inverno dopo avere avuto un amore estivo nato da un equivoco. Storia che mi aveva trovato piuttosto partecipe al suo destino. Insomma mi era piaciuto scriverlo e lo sentivo un racconto riuscito. Allora, da quel momento, un racconto dopo l’altro. I cui spunti potevano arrivarmi da ogni parte. Da una storia che sentita magari anni prima non mi era mai uscita di mente e sempre con la voglia di utilizzarla senza sapere come, a un articolo letto su un giornale, al ricordo di una vecchia canzone, o di un viaggio, a amici scomparsi che il racconto mi riportava davanti anche se lontani.

Insomma l’attività frenetica di qualcuno che di colpo aveva trovato il modo di raccontare le storie che in un modo o nell’altro aveva dentro facendomi alla fine ritrovare tra le mani una sorta di commedia umana  che a quel punto valeva la pena di tentare di pubblicare facendola girare tra editori con un risultato quasi inevitabile per uno che non pubblicava da anni. Silenzio tombale fino al pomeriggio in cui mentre stavo lavorando in teatro era arrivata la telefonata di Gianandrea Piccioli, direttore editoriale della Garzanti che, solo in casa a Milano in un noioso pomeriggio di pioggia, mi informava che il libro gli faceva talmente compagnia da volerlo  pubblicare. Cosa che sarebbe avvenuta con una vasta accoglienza critica a dire poco sconcertante per un libro nato per caso e che poi aveva avuto una intensa vita extraeditoriale in festival, teatri, caffè e cantine fino all’uso che avrebbe finito per farmi più piacere. Quello da parte dei genitori di una scuola dell’hinterland milanese per uno spettacolo teso a raccogliere i fondi per comprare la cancelleria dei loro figli.

Ah no. In testa ci metto il fatto che alla fine mi aveva fatto scrivere il romanzo che non riuscivo a scrivere, Privati Abissi, poi Principessa e  poi quello che ho appena finito, La Malinconia dei Crusich, che mi ha preso quattro anni di lavoro ma ne valeva la pena.

Quali sono gli scrittori del nostro passato recente che Lei considera dei punti di riferimento per le nuove generazioni?

G. Mi viene in mente Giuseppe Berto che aveva fatto due cose drammatiche nella vita. La guerra e scrivere. Poi Primo Levi, poi Rigoni Stern, il primo una testimonianza umana straordinaria e il secondo un grande scrittore appartato sulle sue montagne.

Ci sono scrittori di racconti attuali che vuole menzionare per il loro valore?

G. No. E non perché non ci siano, come il Franzen delle Correzioni, ma perché leggo, anzi rileggo, solo quelli che mi hanno fatto scrivere e che mi servono per continuare a farlo. Da Conrad a London a Hemingway a  Fitzgerald, a Roth, non Philip che non mi piace ma Joseph che è un grande, e tutto il gruppo mitteleuropeo sopravvissuto all’Impero asburgico.

Cosa ci dice sul fatto che i racconti non si leggono e non si vendono? Lei condivide questa affermazione?

G. Che forse è  proprio la ragione della scadente qualità  dei libri che stipano le librerie al punto a volte da impedirmi di entrarci.  Perché se ho una certezza è quella: non esiste palestra altrettanto buona dei racconti per farsi i muscoli per scrivere.

Da scrittore, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?

G. Che scrivano solo se non possono farne a meno e comunque non per soldi, posto che riescano a farne,  perché non è quella la vera paga di uno scrittore.

Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura