“Che cosa siamo, che cosa non siamo” su Lo spirito nella casa nella palude…

“Che cosa siamo, che cosa non siamo” su Lo spirito nella casa nella palude…

Che cosa siamo, che cosa non siamo di Gianluca Massimini è una raccolta di racconti. E già questo potrebbe bastare a mettermi in difficoltà: sono sempre stata più una lettrice di romanzi, i racconti sono troppo brevi, in una raccolta ce n’è sempre più di uno (giustamente), i racconti non lasciano il tempo di affezionarti che già cambia il soggetto, o peggio ancora i protagonisti si
assomigliano troppo, pure quando hanno nomi diversi, come mille facce dello stesso autore eccetera.
Non è questo il caso.
Questa raccolta, scritta da un uomo, inizia con un racconto la cui voce narrante, che narra in prima persona, quindi la protagonista, è una donna. E
già questo potrebbe bastare a farmi lanciare il libro dalla finestra, ma io non sono il tipo che lancia libri dalla finestra, ai libri do sempre una possibilità.
Stavolta ho fatto proprio bene.

Nell’insieme il libro mi è piaciuto, a parte due racconti, ma è un rischio che corrono le raccolte di racconti, dove ogni racconto è a sé, mentre in un romanzo un capitolo fa parte del tutto e viene considerato necessario anche quando è meno bello. Io poi nei romanzi i capitoli brutti li trovo sempre all’inizio e in quel caso non sto certo a distinguere tra capitoli belli e capitoli meno belli: lascio perdere tutto il libro. Invece le raccolte di racconti sono belle proprio perché, se anche qualche racconto non piace, non è detto che siano brutti anche gli altri. Una raccolta è eterogenea, anche quando non al cento per cento, ma in questo caso c’è sempre il titolo a darci un indizio, perché dovrebbe riassumere o rappresentare l’argomento della raccolta.
Ecco, direi che l’unica cosa davvero brutta di questo libro è il titolo: Che cosa siamo, che cosa non siamo è un po’ come dire “se non siamo zuppa, siamo pan bagnato”. Oppure è un’esclamazione interrogativa? Come dire “ma dove andremo a finire!?”.

Siccome non mi lascio incantare da titoli magari scelti da un editore su di giri, e siccome il titolo non fa il libro, io ho iniziato a leggere, e ho proseguito anche quando ho capito che la voce narrante del primo racconto è quella di una donna. Considerato questo, il fatto che io abbia segnato il racconto con l’espressione “nulla da eccepire”, la dice lunga. Io odio gli uomini che credono di sapere come pensa una donna, che finiscono per leccare il culo alle lettrici donne spalmando personaggi pseudocoraggiosi, o donne bisognose d’affetto accanto a uomini che gliene danno a iosa, appioppando loro “frasi intelligenti” per assicurare che “(anche) le donne sono intelligenti”, descrivendole belle e ammirate e sicure di sé e altri maschilismi simili adattati al contesto.
Invece qui c’è una donna che aspetta una telefonata da un uomo, il quale non chiama, ma poi chiama e si vedono pure: argomento se vogliamo banale, simile a un lago profondo e scuro ricoperto da una sottilissima lastra di ghiaccio. Il mio commento a caldo però è stato “nulla da eccepire” e ho detto tutto. Poi, sì, ho pensato anche che il finale non finale è sempre tra i miei preferiti, anche se questo sembrava mostrare un po’ troppa compassione per un uomo che non capisce la donna, ma ho anche pensato “non importa”. Finalmente. Mi piace leggere rilassata, senza dover cercare forsennatamente la matita per sottolineare orrori.

Il secondo racconto è in terza persona e la protagonista è una coppia, conosciamo il punto di vista di entrambi, e poi di lei, poi di lui. Potevo spaventarmi, ma anche gongolare: due racconti e due protagonisti e pure due stili diversi. Se il primo aveva un linguaggio più vicino a noi, e per di più in perfetto italiano, ma senza togliere spontaneità ai pensieri della donna, questo ha un linguaggio che, nella mia ignoranza, ho etichettato come ottocentesco: mi ha fatto venire in mente Anna Karenina ma anche i romanzi di Grazia Deledda, forse per via delle riflessioni della (e sulla) coppia, oltre che per lo stile usato nel presentare le suddette riflessioni. Il linguaggio però non
è del tutto “ottocentesco”; sì, ci sono belle frasi lunghe, e parole desuete, ma anche “lui” e “lei” anziché “egli” e “ella”, come ci si aspetterebbe invece in un cotesto come questo: “Nei giorni in cui, poi, lavoro non ce n’era, vuoi perché fosse festa o perché per un qualche motivo era d’obbligo restare a casa, usciva allo stesso modo assai presto, non sapendo cosa fare altrimenti, e camminava a piedi fino al bar del paese, alla ricerca disperata di amici e conoscenti, e stava lì per ore e ore bevendo e sproloquiando ad alta voce su ogni possibile argomento, con l’incubo nel cuore di dover tornare a casa, di ritrovare prima o poi la moglie al suo fianco.”

Il racconto ha un lieto fine, si può dire, una soluzione semplice semplice; quasi un finale non finale? Non lo so, ma anche dopo questo ho pensato “finalmente”.

Anche il terzo racconto è in terza persona, ma stavolta si tratta di due amiche e il punto di vista è prima esterno, per poi accompagnarci con una sola delle due, che si perde nei ricordi di un vecchio episodio. Forse per l’ambientazione iniziale, in un viale fuori da una villa, mi ha ricordato Liala; c’è pure un “ella” e un “ristettero” (bellissimo, questa), ma l’argomento, e il modo in cui ne parlano le due amiche, è del tutto moderno: mi pareva quasi di conoscerle entrambe, di vedermele davanti a parlare di pettegolezzi da palestra, con riflessioni solo apparentemente banali, semmai logiche, ed esposte con tale semplicità: “Pensò solo a quanto fosse triste il destino delle donne, che pur volendo, a differenza dei maschi, non possono far quel che vogliono senz’essere ritenute delle poco di buono. E a come, non capiva perché, alcune di esse la pensassero allo stesso modo di quelli, che in ogni caso le offendono…”

Molte volte trovo “esse” usato come per dare un tono più autorevole a un discorso invece campato in aria; qui non solo “esse” mi sembra usato a proposito, ma il discorso ha una sua autorevolezza di per sé, data dalla semplicità dell’esposizione: in fondo è una persona normale che pensa queste cose. Dieci punti “ottocenteschi” a quel “senz’essere” bellissimo.

La stessa donna più avanti, rimasta sola, ricorda un uomo che aveva conosciuto in passato, in una situazione simile; ricorda che allora “lui, una volta in camera, l’aveva subito baciata e aveva cominciato a spogliarla senza chiederle nulla” e che lei “aveva provato un tale eccitamento dalla promiscuità del momento” eccetera: tutto molto semplice e diretto. Come il finale del resto, che non è una frase saggia, morale della favola, ma un pensiero quasi scontato, eppure in sintonia col personaggio semplice che lo pensa, presentato sino a quel punto.

Nel quarto racconto c’è ancora una coppia, ma il punto di vista è quello del figlio sedicenne. Non so perché mi è venuto in mente Senilità. Racconta dei genitori, del loro matrimonio, delle avversità della vita, della precarietà moderna, ma dandogli un’aura da anni Cinquanta o giù di lì. Qui c’è un bel finale che potrebbe essere un messaggio, una morale della favola, quasi infantile, chi vuole lo può leggere così.

Nel quinto racconto abbiamo un uomo disoccupato che si sente inutile, mentre la donna lavora e lo mantiene. È lei che racconta, con voce semplice, senza malizia, innocente, ignorante, senza voglie di riscatto: fa quello che in fondo fanno tutte le donne, ovvero si sacrifica per la famiglia (o per la coppia, in questo caso). A lei sembra logico, ma lui non regge e se ne va.

Il sesto è una storia di sesso. Ha dialoghi brutti e complessi (l’unico racconto con discorso diretto), la donna viene eccessivamente lodata, e forse il punto di vista è in fondo quello di lui, che si tiene a distanza ma vuole fare seriamente. Lei comunque è troppo allegra e insulsa. Non so se non mi è piaciuto perché non ci ho visto un senso o perché ci ho visto un senso assurdo o perché i personaggi sono poco chiari o i dialoghi insulsi. Ho pensato solo che è brutto.

Qui abbiamo una donna che pur di non trasferirsi ancora e di non perdere il lavoro della sua vita per seguire suo marito, fa di tutto per far trasferire lui vicino a casa. O meglio: gli cerca un lavoro vicino a casa, visto che il trasferimento in una sede più vicina sembra impossibile; e non fa nemmeno di tutto: niente sesso in cambio di questo favore. Ora che ci penso non c’è nemmeno il termine “marito”, anche se si dice che sono sposati. Forse non c’è in tutto il libro, forse si parla sempre solo di “compagno” anche quando viene specificato che i due sono sposati. Questo racconto mi ha ricordato Valentino. Poi pensavo che lei fosse assurda, ma davvero alla fine riesce a far trasferire il marito vicino a casa, e lui, quello “acquiescente”, adesso è tutto felice.

Nell’ultimo racconto, viene sciolto un voto d’amore. Però non è chiaro in quali rapporti sia lei con lui: che abbia davvero abbandonato uomo e figli di cui però nessuno in famiglia sa? E lui lo sa? E lei come ha fatto? Il punto di vista è quello di lei che da lontano guarda e nel frattempo ripercorre con la mente. È un voto d’amore segreto, questo è certo perché lo dice lei.

Otto racconti con protagonisti diversi, punti di vista diversi, anche se per un attimo alcuni sembrano collegati, per via del nome o di una caratteristica (il terzo al secondo e il quinto al quarto), ma non è così, e ne sono contenta. È un libro leggero, rilassante come piacciono a me, è moderno ma è anche un po’ un libercolo d’altri tempi, infatti alla fine mi dispiace solo averlo ricevuto via mail dall’autore, anziché averlo trovato casualmente in una bancarella dell’usato, come mi era capitato con Valentino. La lettura a sorpresa c’è stata comunque, anche se non ho pagine ingiallite da sfogliare (il libro è del 2015).
Il messaggio dei racconti potrebbe essere uno per tutti: la semplicità è la soluzione. Senza complicarci ulteriormente la vita con quello che potrebbe aver pensato l’altro o pensando qualcosa che l’altro non immaginerà mai. Una sorta di utopia, forse, ma forse no: spetta a noi realizzarla. Ci sono fra le protagoniste molte donne che sostengono gli uomini come se fosse naturale, o si potrebbe dire che con grande naturalezza viene mostrata la condizione della donna da un altro punto di vista: la donna è ancora oggi la colonna portante della società, le viene spontaneo esserci sempre, sostenere, capire, ma nel frattempo vive anche la propria vita individuale, è semmai l’uomo (ma in fondo anche certe donne) a voler a tutti i costi ridurre ancora il tutto a ruoli determinati. Nel racconto che mi è parso brutto mancano ruoli precisi,
chiari sin dall’inizio, e forse è proprio questo il motivo, perché anche a me l’hanno raccontata così (certo, diamo la colpa agli altri), perciò me li aspettavo lì, dentro confini invalicabili: guai a uscirne.
Un racconto in più con questo stile e linguaggio forse mi avrebbe stufata? Non lo so, ce ne sono otto e il libro mi è piaciuto, è una bella raccolta di storie senza recriminazioni, e alla fine mi sembra azzeccato pure il titolo, se gli do il senso di “come siamo e come ci lasciamo dipingere”.