Chiunque – intervista a Giusy Puglisi

  Ho letto e apprezzato Chiunque, il nuovo libro di Giusy Puglisi edito da Morellini, un romanzo composto da un insieme di racconti in cui i personaggi proposti, descritti nella loro quotidianità, nei loro gesti apparentemente banali, con i loro pensieri, le loro fragilità, le loro emozioni, vanno a comporre il ritratto vivido di un quartiere popolare di Catania, colto nei suoi elementi peculiari. Portandoci con il suo sguardo nei bar, nelle case, nelle piazze e in chiesa, in cui vivono, sognano o si disperano anziani e bambini, casalinghe e prostitute, parroci ed insegnanti, l’autrice riesce a parlarci in questo modo della vita di chiunque, cioè dell’umanità intera.

Attraverso le pagine di Chiunque lei ci conduce nella vita quotidiana di un quartiere di Catania. Ci descrive i sogni, le paure, le fragilità di persone comuni. I protagonisti sono donne delle pulizie, prostitute, ex conducenti di autobus, amanti e spose, sacerdoti… Perché ha deciso di rivolgere il suo sguardo proprio a questo contesto?

Ho pensato di ambientare il mio libro in un quartiere popolare, perché volevo raccontare l’umanità dove è più libera da sovrastrutture, più autentica. Nelle realtà borghesi, l’animo è spesso inquinato da strati di perbenismo, l’apparire più importante del sentire. Questo, però, non fa dei personaggi del mio libro degli eroi dell’essere, per me non esistono santi e peccatori, giusti o sbagliati. Per questa ragione ho volutamente evitato la dicotomia tra protagonisti e antagonisti.

Lei coglie abilmente nella vita di queste persone le fragilità, le debolezze, le contraddizioni, ma in alcuni casi anche la volontà di resistere alle avversità della vita, il senso di una dignità non ancora persa. Ai toni dolenti, spesso nostalgici, dei singoli, soprattutto nel caso in cui siano anziani, sembra corrispondere in certi episodi la possibilità di un incontro, della riscoperta della condivisione e dello stare insieme…

I miei personaggi sono dei vinti, gli ultimi della lista del mondo, eppure l’umanità che, nel bene e nel male, li avvolge, restituisce loro dignità, non gloria, perché la partita della vita ė impossibile vincerla. In alcuni casi ho immaginato per loro la possibilità di incontrarsi dentro lo stesso dolore senza, però, alterare l’equilibrio di solitudine che aleggia nelle vite che ho raccontato.

Alcuni personaggi sembrano accomunati da un destino simile, sembrano cioè colti da una grande solitudine… una condizione molto lontana dall’idea, non so quanto vera, di una terra come la Sicilia in cui le persone sono di solito solari e i rapporti familiari sono saldi e molto sentiti, forse più che altrove…

Essere soli non significa essere isolati. La solitudine è il luogo privilegiato dove l’uomo incontra e riscopre se stesso. La Sicilia è sicuramente una terra che nell’immaginario collettivo è accogliente, ma questo non è in contraddizione con la condizione di solitudine introspettiva, che è alla base dell’essere consapevole. In realtà l’uomo condivide il passaggio terreno, vive coabitando con altre persone, ma quando deve sbrogliare la matassa ingarbugliata della sua anima, lo deve fare necessariamente da solo.

Spesso lei ci propone più chiavi di lettura della medesima situazione: passa, per esempio, dalla tenerezza coniugale de I vecchi alla ipocrisia di Evviva gli sposi

Non mi piacciono le chiavi di lettura univoche. Non esiste un solo modo di vedere una stessa realtà, esistono prospettive. Proprio questo è il messaggio che voglio trasmettere con il mio libro. Esiste la vita e tanti modi di interpretarla, quanti sono gli occhi che la osservano.
Il matrimonio, nello specifico, è poi una realtà così complessa, che sarebbe impossibile rimpicciolirlo dentro una sola visione.

Un occhio di riguardo è da lei riservato alla condizione della donna, spesso relegata tra le mura domestiche e non padrona del proprio destino. Colpisce il fatto che a volte sia la casualità, e non la volontà, a spingerle ad emanciparsi da una presenza maschile rude e possessiva…

Il caso è regista delle nostre vite, insieme ai desideri e volontà. In alcuni racconti, dove non c’è stata volontà è giunto il caso, come ricompensa.
In alcuni contesti, lasciare al caso la liberazione da contesti opprimenti, è la regola. Una diversa educazione sociale, può fare la differenza.
La cultura siciliana è piena di donne forti, tutt’altro che sottomesse all’infausto destino, e a queste figure dobbiamo volgere lo sguardo per aiutare le nuove generazioni ad emanciparsi dalla cultura patriarcale.

Il rapporto dei personaggi con la fede è spesso ambivalente: c’è chi vive nell’ipocrisia e nell’inganno, anche quando dovrebbe dare l’esempio, e c’è chi instaura un dialogo intimo con Dio, soprattutto quando si trova di fronte a situazioni difficili da accettare, che non riesce a spiegare…

Credo fortemente nell’esistenza di Dio e nella necessità di instaurare con lui un dialogo.
Temo, però, parola “fede”, e la parola “obbedienza”, perché spesso vengono utilizzate come argine all’intelletto, come una vera e propria delega in bianco, con cui alcuni affidano ad altri l’attività celebrale. Non sono cattolica e questo credo traspare nel mio libro, ma pregare è per me un’attività naturale ed universale.

La sua attenzione è spesso rivolta agli adolescenti inquieti. La scuola nel loro caso non sembra essere un punto di riferimento, un’ancora di salvezza, anzi appare tutt’altro… Non è un porto sicuro neanche per gli adulti che ci lavorano…

La scuola può essere di trincea, ma la guerra la puoi combattere con o contro i ragazzi. Può seminare o lasciare incolto il campo del domani. La scuola è un’occasione per essere migliori, ma in certi contesti ha bisogno di menti illuminate, che riescano ad immaginare per il teppista seduto all’ultimo banco, un possibile futuro. Servono insegnanti in grado di superare il desiderio di volere infliggere ai propri alunni, le stesse immani sofferenze patite a causa loro, donando ai peggiori la possibilità di calare la maschera e recitare nello spettacolo della vita, un personaggio differente.

Il suo libro può essere letto come un romanzo ma anche come una raccolta di racconti in cui i personaggi compaiono più volte. Perché ha scelto questa soluzione narrativa piuttosto che ricorrere alla scrittura di un romanzo tradizionale, con trama e sviluppo della stessa?

Ho scelto questa inusuale forma narrativa perché non volevo raccontare una storia, ma dei personaggi e cogliere la loro umanità da ogni possibile prospettiva. Volevo che l’unico protagonista fosse l’umanità in tutte le sue declinazioni.

Intervista apparsa su Lankenauta.