Il giardino di Sophia

  Secondo titolo dedicato da Il ramo e la foglia alla poesia portoghese, anche questo curato e tradotto da Roberto Maggiani, Il giardino di Sofia ci propone una ricca scelta di poesie di Sophia de Mello Breyner Andresen, unanimemente riconosciuta come la più grande e celebre poetessa portoghese contemporanea, autrice anche di saggi, articoli, racconti per l’infanzia e testi per il teatro, nonché vincitrice nel 1999 del premio Camões, il più importante riconoscimento letterario per gli autori di lingua portoghese.

La raccolta, che copre cinquant’anni di produzione poetica della poetessa, si compone per la precisione di ottanta testi tratti dalle 14 raccolte pubblicate in vita, da Poesia, libro d’esordio del 1944, a La conchiglia di Cos e altre poesie del 1997, una quantità di sicuro riguardo che ci permette di apprezzare in toto la bellezza folgorante dei suoi versi, delle soluzioni foniche e metrico-stilistiche, nonché la varietà dei temi oggetto del comporre, ma anche l’evoluzione del suo pensiero, dei suoi interessi, la definizione o ridefinizione della sua poetica, come pure il valore di alcune costanti.

Preponderante, in un primo tempo, è l’attenzione rivolta al proprio mondo interiore, luogo prismatico fatto di ombra e luce, terrore e calma, di cui coglie ed esibisce senza fronzoli disagio e turbamenti (quelli che lei chiama i “fantastici scompigli del mio bene e del mio male“), la paura di non essere, di sentirsi vaga e senza forma, di non riuscire ad afferrare alcunché del reale, paura ben restituita dall’immagine di una voce che implora invano senza trovare risposte, a testimonianza di una singolare e profonda solitudine, a cui però non sono estranei una perenne “sete di frescura“, l’abbandono alla forza dei sogni, da cui tutto può rinascere malgrado le rovine e la morte (“Colui che vede il sorprendente splendore del mondo e logicamente portato a vedere la sorprendente sofferenza del mondo” dirà nella Postfazione del Libro Sesto, raccolta con cui raggiunse la fama), e uno sguardo cristiano colmo di pietas che va a posarsi sul mondo e sugli oggetti e che diviene man mano la cifra più evidente del suo lavoro, quella che la porterà a più riprese, e in più raccolte, a cantare il giardino citato e ripreso nel titolo della presente raccolta, metafora di un paradiso terrestre agognato o momentaneamente presente (Giardino in fiore, giardino d’impossessione / Trasbordante di immagini ma informe, / In te si è dissolto il mondo enorme, / Caricato di amore e solitudine. […] Ma ogni gesto in te si è rotto, denso / Di un gesto più profondo in sé contenuto, / Sebbene porti in te sempre sospeso / Un altro giardino possibile e perduto. cfr. Giardino Perduto).

Da qui l’inseguimento di un passato ormai perduto evocato da immagini e da oggetti che appartengono al quotidiano, un passato in cui le cose forse avevano un senso e nel quale ci si illude di poter tornare per ritrovare tutto intatto, ma anche l’idea della vita come miracolo a esclusivo beneficio del soggetto, annunciazione di Dio che si infonde nelle cose stesse (Felicità) di un mondo in cui non mancano angeli, messaggeri forieri di annunci e di silenzio, e un dialogo costante con Dio, invocato ma sempre senza nome, senza volto, essendo il “grande Dio invisibile” che non si manifesta al viandante della vita, al pellegrino che in trepida attesa si mette in marcia nella Passeggiata della mattina per giungere nella “chiesa alta e quadrata (…) perché tu sei di tutti gli assenti l’assente” (Eccomi).

Fortemente intrisa di un umanesimo cristiano che si fonde con le istanze sociali, come ci ricorda Claudio Trognoni nella Postfazione, la poesia diviene allora, con la maturità del Livro Sexto, denuncia dell’ipocrisia imperante (“Una terribile atroce immensa / disonestà / copre la città“), della violenza che annulla ogni dignità (“Questa gente […] ora mi ricorda schiavi / ora mi ricorda re / Fa rinascere il mio piacere / di lotta e di combattimento / contro l’avvoltoio e il cobra / il maiale e il nibbio“), ma anche speranza ultima di rinnovamento (“E ricomincio la ricerca / di un paese libero / di una vita limpida / di un tempo giusto“) a cui tanto può giovare il poeta con la sua parola, e duro attacco alla dittatura di Salazar, “il vecchio avvoltoio” che ama il putridume, l’imbonitore delle folle di cui rende l’anima più piccola con i suoi discorsi (“E poiché è la più profonda implicazione dell’uomo nel reale, la poesia è necessariamente politica e fondamento della politica.” dirà in Poesia e rivoluzione, testo letto al I Congresso degli scrittori portoghesi il 10 maggio 1975). Sono liriche che accompagnano per mano il lettore lungo la via che condurrà alla libertà, alla Rivoluzione dei garofani di cui la de Mello Breyner Andresen dirà: “Questa è l’alba che attendevo / Il giorno iniziale intero e limpido / In cui emergiamo dalla notte e dal silenzio / E liberi abitiamo la sostanza del tempo” (25 di Aprile).

Recensione apparsa su Lankenauta.it

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