Racconti crudeli

La collana formebrevi della Del Vecchio si arricchisce in questi giorni di un ulteriore pezzo pregiato che non dovrebbe mancare nella biblioteca degli amanti della letteratura latinoamericana. Con il titolo Racconti crudeli l’editore romano ci propone infatti, nella traduzione di Elisa Montanelli e con la prefazione di Loris Tassi, ben due raccolte di Abelardo Castillo, Las otras puertas e Cuentos crueles, con le quali intende dare il via al progetto di pubblicazione dell’intero corpus dei racconti dello scrittore argentino.

Le due raccolte, benché eterogenee per quanto riguarda le fonti e i modelli cari all’autore (che ha fatto del dialogo con i classici e con le opere del suo canone ideale un elemento peculiare della propria produzione), sono accomunate da una sostanziale unità tematica che prende corpo nella scelta della violenza come argomento principale, scelta che va fatta risalire, come ha più volte ricordato lo stesso Castillo, al desiderio di testimoniare la sofferenza e il conseguente crollo delle illusioni di una generazione che visse in tempi bui, negli anni Sessanta, preludio di tempi ancor peggiori (“Cuentos crueles fu scritto fra il 1962 e il 1966, cioè, nei pieni anni Sessanta, anni che non furono il tempo dorato e irresponsabile che taluni immaginano, ma il preludio di altri anni atroci e violenti che seguirono e nei quali ancora viviamo”).

Mutuando le parole di Elisa Montanelli dalla nota di traduzione allegata al volume, si tratta nel complesso di racconti che parlano di “lotte, battaglie, incontri di boxe, duelli a cuchillo, duelli a mani nude, cazzotti, colpi di sciabole, colpi con calci di pistole, sfregi e cicatrici, botte fra ragazzi, botte fra uomini, botte fra le mura di casa” in cui l’ingenua e strafottente baldanza giovanile è costretta a fare i conti con la crudeltà del mondo adulto, un mondo sempre pronto a tentare, a traviare, a mettere alla prova persino i più puri, che non esitano a commettere delle atrocità pur di avere un posto nel gruppo dei pari, e nel quale anche l’intelligenza viva e brillante dei più bravi può divenire lo strumento diabolico perfetto per dare vita alle più grandi cattiverie, perseguite con un compiacimento estremo a danno di chi preferisce invece l’amore e i buoni sentimenti (fa fede in questo caso la frase in epigrafe tratta da Kierkegaard, posta ad inizio della sezione Gli iniziati, titolo di per sé significativo: Anch’io ho sentito la propensione a forzarmi, in un modo quasi demoniaco, a essere più forte di quello che sono in realtà).

Immersi in una quotidianità in cui l’umiliazione, il disprezzo, lo sfruttamento e la solitudine in primo luogo, la fanno da padroni, i protagonisti di Castillo vestono dunque, quasi sempre, i panni dei violenti, dei profittatori, dei rissosi giocatori di carte, degli ubriachi e dei donnaioli, che non disdegnano in alcun modo, a sentire qualche voce narrante, di commettere “porcherie” e “cose ripugnanti”. La crudeltà di cui si macchiano si rivela per lo più nel gesto abituale, nelle piccole cose d’ogni giorno, nelle promesse tradite per esempio, o negli imprevedibili mutamenti d’umore dei grandi, incomprensibili agli occhi di un “piccolino che gioca alla ninna nanna” con un coniglio di pezza nel quale cerca conforto, grandi in cui l’attrazione per il morboso, lo sconcio, l’indecente, riesce a dissolvere in pochi istanti i principi morali su cui si fonda un’amicizia oppure l’unità coniugale, destinate ad evaporare dinanzi agli occhi di chi non ha perso di vista la realtà delle cose e il loro lato umano ma che subisce purtroppo i manrovesci del destino.

Il fatto che sottotraccia si possa sempre rinvenire dietro le vicende burrascose narrate da Castillo una sorta di omaggio agli autori da lui amati, ai suoi numi tutelari (vale a dire Poe, Arlt e Borges, Marechal, Cortázar, la tradizione fantastica argentina, i tragici greci, Dante, Dostoevskij e la grande narrativa dell’Ottocento, Kafka, Sartre, il primo Hemingway e Malcolm Lowry), non va a scapito però di una prosa autentica ed essenziale, estremamente incisiva ed elegante, che mescola registri colloquiali e linguaggio infantile al monologo allucinato, rimanendo sempre saldamente ancorata al reale, anche qualora venga forgiata intenzionalmente in base alle fonti e ai temi proposti (“Castillo, come del resto Piglia, non si limita ad analizzare le opere dei suoi precursori da un punto di vista critico, al contrario spesso, nelle sue finzioni degli anni Sessanta e Settanta, le mescola, le riscrive, le reinventa.” ci dice Tassi nella prefazione). Ricordiamo a tal proposito i racconti dedicati alla pazzia, tema declinato a volte con toni iperbolici come quando l’autore prende di mira la grigia routine dell’impiegato di ufficio, oppure nella forma dell’ossessività asfissiante dei personaggi verso i vicini di casa (i pazzi di un manicomio), in quella delle “classiche” vicende di morte e di vendetta, segnate da gesti inconsulti, come il fatto di aver fatto felice un disgraziato e poi d’ucciderlo, oppure dell’amore per l’assurdo e per il gioco metanarrativo.

Castillo ci fornisce, insomma, con estrema maestria il ritratto spietato di un’umanità bizzarra e senza cuore, cinica e sprezzante, a tratti anche incomprensibile, di sicuro destinata a non redimersi, a rimanere maledetta, perché incapace di amare e di amarsi, di entrare in comunione con l’altro, e lo fa con uno stile, una parola che non indugia nel racconto amorevole, che non edulcora trame e particolari che possano rassicurare il lettore, ma che va dritta al sodo, che è una stilettata ad ogni pagina, e ferisce con una esiguità di risorse che non lascia la possibilità di riprendersi.

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Abelardo Castillo, Racconti crudeli, prefazione di Loris Tassi, traduzione di Elisa Montanelli, Del Vecchio Editore 2024, pp. 266

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