Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche

  Se è vero, come pare, che il tempo è galantuomo e che può sempre arrivare, a ben vedere, il momento in cui rivalutare un autore e la sua voce, in cui mettere in luce il suo pensiero e le pagine singolari e, perché no, anche quelle rimaste confinate per decenni – inspiegabilmente – in un cassetto fino alla loro riscoperta dovuta a un editore coscienzioso e dal fiuto infallibile, allora la vicenda che ha legato negli ultimi anni l’opera di Ezio Sinigaglia a Terrarossa Edizioni di Giovanni Turi assume senza dubbio i connotati di una vicenda esemplare.

Dopo aver dato infatti alle stampe Il Pantarèi (2019), romanzo/metaromanzo che ripercorre in sé la storia di questo genere narrativo lungo tutto il Novecento, e la breve quanto splendida L’imitazion del vero (2020), novella in cui l’amore omoerotico viene decantato dall’autore con un occhio costantemente rivolto alla nostra migliore tradizione letteraria, Terrarossa Edizioni porta in libreria Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche (Terrarossa edizioni 2021, pp. 268, € 15,50), un romanzo che può essere ritenuto l’ennesima grande prova del nostro autore.

La vicenda, di per sé riassumibile nella narrazione dell’amore assoluto nutrito da Aram alias Warum (colui che si interroga, che chiede il perché) per Stefano-Phephen, anche detto Fifí o Fyfty-fifty, colui che per metà si concede e per metà si nega, così rinominato per la sua propensione a dirsi interessato ma senza mai giungere a darsi del tutto (“Ma fin da subito s’era insinuato in me il tarlo dell’eresia monofifita. Che era duplice, quanto agli obiettivi. Da una parte pretendevo di riunire ciò che in natura era diviso: i due Fi di Fifí, le due metà del mio cuore. Dall’altra, prima ancora che l’anno nuovo nascesse, avevo scelto: o Fifí o nessuno. Fifí era il solo fuoco del mio sguardo. Il molteplice si riduceva all’uno.“), è una vivida, esuberante, descrizione dei sentimenti e dei moti dell’animo del protagonista, e del mondo interiore di noi tutti, qui raffigurati a tutto tondo da una penna di rara finezza, ma è altresì uno splendido affresco della vita mondana dell’Italia degli anni Ottanta, per la precisione della medio alta borghesia milanese, raccontata dall’autore con toni scanzonati e spesso mordaci, con una somma levità che non disdegna però di scendere in profondità, così come di lasciar trasparire il piacere, la predilezione dell’autore per il gioco linguistico e metaletterario (Cos’è in fondo Fifty-fifty? Un romanzo d’avventura, di formazione, di memoria, una commedia briosa e irriverente? E a cosa potremmo ricondurre l’inserimento delle dramatis personae in incipit, dal sapore squisitamente teatrale, e del sommario in explicit?)

Ciò che colpisce in sommo grado è innanzitutto la grande versatilità di Ezio Sinigaglia, già evidente nel pluristilismo del Pantarèi e nel mimetismo linguistico di Eclissi e dell’Imitazion del vero, che trova qui un’ulteriore, netta conferma: nei teneri e rarefatti vagheggiamenti lirici (“Che ci posso fare se il mio cuore non ha cervello, né memoria, né senso di realtà? Niente. Cominciò a galoppare verso l’Adriatico da solo, come un cavallo imbizzarrito. Ci impiegai un minuto buono riacciuffarlo per la coda, a riportarlo ad occidente. E, quando lo rinchiusi in scuderia, scaccia ancora come un matto.“), nell’eterea bellezza del vaticinio (“Tu hai sete di stringere, lui di espandersi. Tu di fermarti, lui di andare. Vi attraete, ma con forze diverse. Lui è il pianeta per te, tu per lui un’orbita. Le orbite sono molteplici, il pianeta è uno solo. Attento, Aram: lui sembra il tuo satellite, ma sei tu la sua luna.“), nell’umorismo sottile che può facilmente divenire ironia puntuta e sagace (“Essere completamente privi di idee pur senza essere stupidi è una dote rara e ricercata, che predispone fin dall’adolescenza a una brillante carriera accademica.“), nello stile parodico dei versi finali volti a segnare la condanna, la decostruzione del potere e del sapere accademico, in cui i violenti ardori del prode Rinaldo si spengono con l’arma in pugno (“Tanto pungente doglia allor si face / in quei due picciol frutti donde è adorno / il rametto d’amor snello e pugnace, / che tosto è tratto ad incurvar d’intorno / Rinaldo il palmo a quei per recar pace / e credesi veder, con furia e scorno, / l’ale del premio suo volar lontano, / or quando appunto gli fan nido in mano.“), nonché nella battuta spiazzante e imprevedibile che toglie il fiato, come nel caso della Promessa di Dürrenmatt rievocata in risposta alla richiesta di Fifí di ascoltare qualcosa di eccitante.

Non meno significativa è la capacità con cui Sinigaglia riesce a pervadere le pagine di una squisita e garbata carica erotica, di un desiderio che nel romanzo non trova appagamento, non perviene all’atto ultimo (condizione accostabile al concetto di fin’amor e al suo stadio più compiuto, quello di un desiderio che non può mai essere appagato ma che al tempo raffina), ma che in quanto tale è il motore primo, vero, dell’intera vicenda e del fare narrativo, dell’esplorazione di quell’ignoto che è l’esistenza, una componente psicologica e fisiologica essenziale nella quale potremmo rinvenire ciò che tiene in vita il tutto, ciò che rende ancora possibile un qualcosa che potrebbe morire qualora avesse compimento, obbligando pertanto gli amanti ad essere “due angeli costretti dalla fisiologia angelica ad amarsi nella purezza trascendente.

Spiccano in abbondanza pagine di grande bellezza, in cui si aprono squarci di vera, fulgida maestria, come quelle dedicate ai giorni trascorsi sul Conero da Warum e da Fifí, all’incontro con Mimì Verboten, meravigliosamente resa in pochi, icastici tratti, o quelle in cui vengono rievocati la madre e il bacio dato alla sera, dal tono così dolce, amorevole, aggraziato, nostalgico e talvolta dolente, dal sapore chiaramente proustiano (“Avevo baciato mia madre da un pezzo. Ed ogni altro guardiano della riva. Mia madre per ultima, come ogni sera. Lei si curvava su di me come se il mio sonno fosse una madre notturna, che la sostituiva amorevole nel buio, per restituirmi intatto al risveglio alla madre del giorno e della luce. Il suo bacio non tremava d’apprensione e distacco, ma solo d’attesa. Il mio, invece misurata era un bacio d’addio. Mi sporgevo sulle sue guance come un marinaio che si imbarca.“) o quelle in cui l’autore descrive gli effetti imprevedibili di una petite phrase che al tempo lo affascina e da cui rimane impaurito (“Morire tutti: che assurdità ridicola. Una vera enormità. Tutto il resto diventava minuscolo, al confronto.”), che qui prende la forma e il nome di Sciadè Sulapì (in realtà Jardins sous la pluie di Debussy).

A fronte di tanta bellezza, al lettore non resta dunque che l’abbandono, il lasciarsi incantare da questa voce originale e inconfondibile, di volta in volta lieve, ironica, vivace, che custodisce in sé tutto il valore della nostra tradizione, da questa scrittura di grande finezza in cui Sinigaglia rivela, a piene mani, le doti di un grande artefice della lingua e della narrazione.

Recensione apparsa su Lankenauta.

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